Partiamo dai fondamentali: la scuola, da che mondo è mondo, è il luogo in cui si prova a conoscere ciò che è stato, ciò che è e si prova ad ipotizzare ciò che sarà. E’ quel micro-macro mondo laddove la socializzazione prende vita perché convergono le innocenti esperienze esistenziali dei bambini che sono, anagraficamente e anche un po’ metafisicamente, il simbolo, l’emblema della concreta formazione dell’apprendimento mediante lo scambio: di nomi, di cose, di scenette quotidiane nelle proprie famiglie, dei rapporti tra piccoli e grandi.
La scuola è evoluzione psichica, fisica, materiale e spirituale, proprio nel suo essere laica e repubblicana: perché non soltanto è quella palestra dove esercitiamo le tonalità espressive, per poi farle esacerbare – da adulti – nella violenta muscolarità di un linguaggio tutt’altro che dedito al confronto, ma sempre e soltanto allo scimmiottamento del bellicismo vero e proprio; prima di tutto è una porta aperta sulla strutturazione dell’individualità inseparabile dalla socialità.
Pensare alla scuola come ad un falansterio di aule in cui assiepare gli studenti e gli insegnanti, ciascuno operante il proprio compito, giudicati e giudicanti con votazioni da giurie di programmi televisivi, è molto oltre il deprimente: semplicemente non è più la voglia della conoscenza, ma l’obbligo della stessa. Il che produce una grammatica dell’esposizione sovente nozionistica, mal digerita dalle ragazze e dai ragazzi e non aiuta alla vera comprensione del sapere.
Ed il sapere è universale, almeno fin dove l’oggettività è evidente e non ha bisogno di interpretazioni. Universale come il diritto ad essere acquisito, utilizzato e indagato nell’approfondimento costante per diventare così cittadini di un mondo che invece, proprio nelle piccola patrie dei nazionalismi conservatori dell’oggi, si settorializza tra nord-occidentale ricco e sud-est povero. E sulle fondamenta di questa struttura sono condizionati i diritti globali alla conoscenza e, pertanto, al progresso generale dell’animalità umana.
La nostra Costituzione recita all’articolo 34: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». A tutti vuol dire proprio a tutte e tutti. Senza distinzione alcuna. Per la verità i leghisti non cianciano di esclusione degli alunni non italofoni dagli istituti della Repubblica.
Replicano anche in questo frangente il sottile distinguo tra esclusione e separazione. Loro non escludono nessuno, ma mettono da parte, in un angolo, distinguendo chi ha diritto da chi non lo ha, creando delle zone d’ombra entro i cardini di una democrazia che, invece, dovrebbe avere riguardo per chiunque si trovi a vivere nell’Italia cosiddetta moderna. Per questo, l’operazione è più infingarda di quanto possa apparrire. E viene fatta proprio a ridosso dell’espressione di compiacimento del Presidente della Repubblica nei confronti della scuola di Pioltello che ha chiuso per il Ramadan.
Se non è sgarbo istituzionale, poco ci manca. Il punto, tanto più, rimane. I leghisti, mentre si avvicina il voto per la rielezione del Parlamento Europeo, sentono la necessità di fare mostra della propria coriaceità conservatrice, italiota e nazionalista come mai dall’insediamento del governo Meloni. Non c’è uno pseudo-problema su cui Lega e Fratelli d’Italia non questionino da mesi e mesi. La contesa elettorale preme e insidia le percentuali leghiste, i seggi a Strasburgo, la stabilità della maggioranza, la possibiltà per Salvini e colonnnelli di aprirsi qualche ulteriore varco di incidenza entro l’esecutivo.
A farne le spese oggi sono studenti, insegnanti e personale scolastico. Invece di discutere delle pochissime risorse che lo Stato e le Regioni affidano alla scuola della Repubblica, quindi di una implementazione delle stesse praticamente pari allo zero (anzi potremmo dire che siamo al di sotto dello zero termico di un sapere che va verso un’era glaciale), il governo si produce in una polemica sul tetto percentualistico che dovrebbe impedire un presunto sovraffollamento delle classi da parte di alunni non autoctoni.
O, comunque, anche se autoctoni, in quanto nati in Italia da genitori non italiani, considerati sempre e soltato sulla punta del diritto esclusivista dello ius sanguinis. Si sostiene che il problema principale è l’insegnamento della ligua del padre Dante: dato l’alto tasso di analfabetismo funzionale e di ritorno, che decreta il fallimento del modernismo anticulturale televisivo prima e internettiano poi, forse la preoccupazione primaria dovrebbe essere la riformulazione di programmi scolastici, ma pure il fatto che, in particolare nelle regioni più depresse economicamente, l’abbandono scolastico è una vera e propria piaga antisociale.
Se molte scuole pubbliche oggi riescono a sopravvivere e non sono costrette a chiusure ed accorpamenti, con tutti i disagi che ne deriverebbero, ad iniziare dal ridimensionamento degli organici, delle trasferte per il personale docente e per le ragazze e i ragazzi senza più un istituto di prossimità, è perché vi è la presenza di quegli “stranieri” che i leghisti associano alla perdita dell’italianità in quanto riconoscibile nella tipolgia cittadinesca che danno certi generali in alcuni libri di deplorevole successo.
Valditara però scivola sul bagnato stesso della destra: fu proprio l’ultimo periodo del berlusconismo governativo ad introdurre quelle soglie del 30%, per classe, di alunni classificabili nella prolissa definizione di appartenenti alla categoria di coloro che hanno «una ridotta conoscenza della lingua italiana», così da tutelare il pieno diritto degli altri studenti di rimanere al passo con l’insegnamento e non essere frenati dall’ignoranza altrui. E’ una pretestuosità razzistica così triviale da risultare persino indegna della banalità più vuota.
La scuola dovrebbe essere tutt’altro: chi rimane indietro deve essere aiutato da chi è più avanti nella conoscenza di una materia. Ma, insomma, è un po’ la parabola della pecorella smarrita adattata all’ambito didattico. L’insegnante dovrebbe trattare differentemente chi sa meno e chi sa di più? L’insipienza intellettuale e morale di chi anche solo ipotizza queste distinzioni è indegna di un esponente di governo. Per lo meno di una Repubblica laica, fondata sull’inclusione e non sulla particolarizzazione divisiva e differenziatrice.
Gira per la rete una bellissima vignetta in cui un padre chiede al figlio: «Quanti stranieri ci sono nella tua classe». Ed il ragazzino risponde: «Nella mia classe ci sono soltanto bambini».
La potremmo chiudere qui, con questa felicissima battuta che fa riflettere sul grado di inciviltà verso cui scivoliamo giorno dopo giorno e che ci costringe a trattare, commentare, discutere e lottare contro tematiche che dovrebbero essere state superate da tempo. Invece non possiamo, perché la programmazione fisiologica delle forze di governo è tutta improntata alla saldatura tra uno pseudo nazionalismo afferente gli interessi popolari e una politica economica che questi interessi li nega alla radice.
La scuola è una delle vittime di tutto ciò. Come lo è il sistema sanitario, come lo sono i comparti sociali che vengono svuotati di quelle minime garanzie che erano il residuo dello stato-sociale antecedente la fine del Secolo breve. Basterebbe mettere a confronto la scuola di Barbiana con l’idea di istruzione che ha il governo Meloni per rendersi conto immediatamente della distanza siderale che intercorre tra l’ieri e l’oggi: per cui il passato era progressista e il presente è invece risolutamente conservatore.
La proposta di Salvini e Valditara, in fondo, non è nemmeno nuova nella retorica propagandistica delle destre. Eppure, per quanto usata e abusta, trita e ritrita, ritorna come fosse una novità, perché questa società scavata fin dentro le fondamenta di viscere dove rabbia e paura si confondono e alimentano i sentimenti più svilenti il senso di comunità e di reciprocità (anche, ovviamente, culturare) che, a livello istituzionale, si pensa di frazionare con lo sciagurato progetto calderoliano dell’autonomia differenziata da un lato e con un’altra finzione sulla partecipazione diretta popolare nell’elezione del premier.
Nonostante le liti interne alla maggioranza di governo e alla farsesca (dopo essere stata ampiamente tragica) kermesse competitiva tra Lega e Fratelli d’Italia per l’egemonia ideologica a destra e, quindi, l’impatto che se ne ha sul voto, il disegno strategico di stravolgimento (in)costituzionale è alimentato dalla composizione di una nenia giaculante che risuona sirenicamente nella orecchie dei meno protetti, dei più esposti alla crisi economica e sociale e di coloro che hanno sempre più scarsa empatia nei confronti dei valori democratici, della laicità, dell’uguglianza sostanziale e non solo formale.
La tutela del patrimonio scolastico come pietra angolare della democrazia stessa è – diceva Calamandrei – quasi più importante della preservazione delle prerogative del Parlamento, della Magistratura e della Corte Costituzionale. Se scricchiola la certezza di poter avere tutte e tutti il diritto alla conoscenza, senza alcuna distinzione, integrando così articolo 3 e articolo 34 della Carta del 1948, viene meno progressivamente qualunque altro principio di convinvenza e di solidarietà sociale (parlare di “inclusione” prevede, al pari del concetto di “tolleranza“, un rapporto gerarchico che dovremmo evitare…).
Purtroppo la destra è, nonostante i tentativi di liberalizzarsi e adattarsi al capitalismo continentale e globale, rimane legata ad un principio di prevalenza dell’identita nazionale nel momento in cui parla di diritti, mentre estende i doveri a chiunque si trovi sul territorio della Repubblica. “Prima il Nord“, diceva un tempo la Lega padaneggiante e secessionista. “Prima gli italiani” hanno detto all’unisono, per qualche periodo pre e intra elettorale, i partiti di Salvini e Meloni, salvo poi distinguersi nel preciso rapporto con il ruolo istituzionale.
Non ci dobbiamo stupire se i giovani subiscono gli influssi malefici del razzismo, della xenofobia e di qualunque altro pregiudizio (omolesbotransfobia ovviamente compresa): l’esempio che ricavano da chi governa l’Italia è tutt’altro che cristiano come affermano di essere gli esponenti del conservatorismo nostrano. Ed è tutt’altro che laico, visto che propone proprio quell’invenzione antistorica delle “radici giudaico-cristiane” dell’Europa come modello distintivo della propria identità superiore nei confronti dello straniero, del migrante, del religiosamente e culturamente diverso da noi occidentali.
Cinismo e politica vanno a braccetto in un simbiotico, incostituzionale dettame di governo che sconfessa le basi di un vivere civile che ha già da settant’anni nella Costituzione repubblicana il suo manifesto fondamentale. Come un po’ tutte le grandi affermazioni di princìpi, sovente rimangono inascoltate e inapplicate nel nome della politique politicienne, del pragmatismo, della risposta necessaria che andrebbe oltre le ideologie e le ispirazioni che hanno dato vita, in questo caso, ad una nuova Italia rispetto a quella distrutta dal nazifascismo.
Un tassello di ulteriore verità, da aggiungere a questo puzzle che mostra una raffigurazione degradante e decadente della nostra presunta “civiltà“, è la totale inadeguatezza della classe non-dirigente espressa dalla destra. Se Berlusconi aveva raccolto ancora qualche nome eccellente dalle fila del socialismo craxiano e del democristianesimo liberale, Salvini e Meloni hanno portato in dote una seconda, anche terza generazione di amministratori che sono privi di una autonomia di pensiero e di decisione. Il peggiorissimo governo della storia repubblicana fa danni ogni minuto che passa. E lo fa scientemente.
MARCO SFERINI
30 marzo 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria