Abbiamo guardato alla scissione del e nel PD come ad un fatto quasi tecnico in questi giorni. Numeri e nomi si sono confusi fra loro e ci hanno forse fatto perdere di vista il sacrosanto “cui prodest”. Alla domanda latina andrebbe aggiunto: “Perché proprio ora?”.
Sono state dette molte parole sul ruolo avuto, giustamente, dal risultato referendario del 4 e 5 dicembre scorsi: la forza imponente del NO ha travolto un progetto politico che mirava a collegare partito di maggioranza relativa e governo in un percorso unitario, costruendo così una intesa perfetta tra rappresentanza e istituzioni.
Se avesse vinto Renzi sarebbe prevalso lo spirito di uniformità della nazione ad una nuova concezione di “pace sociale” tutta imperniata sulla critica al lamento sindacale, della sinistra “perdente”, quella di opposizione, e sarebbe stato innalzato il concetto di “unità” nella disarticolazione del classismo.
Ma quali classi sociali! Un popolo indistinto, seppure separato in classi da redditi profondamente differenti, da ricchezze e povertà sempre più vertiginose le prime e sempre più nelle profondità dell’invisibile e dell’inindistinguibile le altre.
Questo era l’orizzonte del renzismo: l’epifania di una Italia descritta come in “uscita dalla crisi” (e che invece scopriamo essere ad uno degli ultimi posti nella classifica europea dell’allineamento dei conti nazionali con le previsioni imposte da Bruxelles…), dove il governo avrebbe gestito i problemi sociali con qualche una tantum per pensionati e studenti.
Per fare questo serviva un cambiamento costituzionale, per governare senza intoppi di alcun tipo. Ma il gioco non è riuscito, il banco è saltato e si sono rimessi in moto vecchi meccanismi di rivalsa sulla rappresentanza politica di classi sociali che avevano individuato in Matteo Renzi il prosecutore delle politiche portate avanti dai precedenti esecutivi di matrice liberista.
L’unione tra socialidemocratici, liberali e cattolici democratici ha retto nella prospettiva esclusivamente votata al maggioritario politico ed elettorale, ovviamente. Con la caduta dell’Italicum, anche l’ultimo appiglio per garantire alla borghesia imprenditoriale e all’alta finanza una certezza di rappresentanza compatta e coesa si è disgregato, sciolto come neve al sole.
Questa storia non ci racconta soltanto dinamiche che legano l’economia alla politica da un rapporto classico di altezza per la prima e di subordinazione per la seconda.
Questa storia ci racconta anche di vicende tipicamente umane che si calano negli anfratti più reconditi del risentimento politico: quando una classe dirigente viene messa da parte e “rottamata” (termine tra l’altro davvero sconveniente nel metaforizzare la sostituzione di Tizio con Caio), è evidente che, sconfitta nei numeri, viene resa minoranza politica ed esercita il suo ruolo.
Alla prima occasione per poter rimontare in sella, questa classe di rottamati esce dal periodo di cattività disarcionante e cerca di riprendere il proprio posto nell’ambito dell’agone politico.
E questo è quello che sta avvenendo nel Partito democratico: la monocrazia renziana è entrata in crisi e sembra che nemmeno l’accelerazione reclamata dall’ex presidente del consiglio per andare al voto quanto prima sia riuscita a conquistare gli animi più e meno sensibili.
Il ministro della giustizia, Andrea Orlando, dopo Michele Emiliano, si candida alle primarie per la segreteria del PD e solo il tempo potrà dirci se si tratta di una mossa per depotenziare chi… Emiliano o Renzi?
Il ritorno di D’Alema per un nuovo centrosinistra coincide, quindi, con il ritorno anche dei Giovani Turchi. Tanti ritorni, tante nostalgie di ruoli persi e da ritrovare in un contesto dove la delega della borghesia al centrodestra è in larga parte esclusa: l’estremismo leghista non piace ai padroni. Almeno a quelli abituati ad essere interpretati politicamente da pacati democristiani o neo tali che, per far piacere al popolo, si proclamano magari anche “di sinistra”.
Si riorganizzano quindi capitali e politica. Tutto fa brodo. E più lungo è il brodo, più da bere ce n’è per tutti. Meno saporito. Ma che importa: intanto un po’ di dado si più sempre aggiungere. Voucher, bonus scolastici, 80 euro. I dadi hanno tanti sapori.
I veri gusti, quelli che rendono l’intruglio veramente goloso sono riservati, esclusivi, inarrivabili per chi ormai è abituato all’insipido come all’unico sapore che gli è dato attingere.
MARCO SFERINI
24 febbraio 2017
foto tratta da Pixabay