Il concetto di “rivoluzione”, come tanti del resto, viene spesso usato impropriamente e ristretto quindi al campo ipotetico o più presuntuosamente pratico – da parte di aree di settarismo politico labili quanto le menti che le producono – di un capovolgimento sociale da parte delle classi sociali che dovrebbero attuarlo per risollevare le sorti di tutto il genere umano: gli sfruttati.
Invece, nel corso di questi ultimi trent’anni molto poco abbiamo studiato la “rivoluzione del capitale”, come la definiva Marx: per prima la classe dei padroni e dei possidenti i mezzi di produzione della ricchezza sono “rivoluzionari”. Potrà sembrare strano ma è così: la cosiddetta “borghesia” adatta ai tempi, quindi all’evoluzione dei cicli del capitalismo – come sistema mondiale, diffuso da tempo su tutto il pianeta anche attraverso i processi imperialisti di colonizzazione – la sua sopravvivenza e lo fa con la violenza tipica dell’utilizzo dello sfruttamento del lavoro manuale, intellettuale dell’essere umano.
La rivoluzione dunque è prima di tutto borghese, imprenditoriale, padronale. La rivoluzione del vecchio caro proletariato, dei moderni sfruttati (precari, disoccupati, lavoratori a tempo determinato, lavoratori salariati marxianamente intesi) è quanto di più lontano si possa immaginare in un mondo che vira a destra sul piano politico perché tende a consolidare i privilegi ottenuti e a diminuire la forbice delle distanze tra debolezze del sistema a livello concorrenziale (tra i diversi poli economici) e debolezze prodotte dalle proteste dei popoli che si ribellano ai cani da guardia governativi imposti dalle classi dominanti.
Dunque domandiamoci: ma quanta rivoluzione ha messo in pratica la classe degli sfruttatori (padroni, imprenditori, chiamateli un po’ come preferite) rispetto a quella opposta che avrebbe dovuto essere creata dagli sfruttati?
Non si tratta di rispondere con percentuali che determinino il livello di “sviluppo” scientifico di una società per mostrare che solo a quello si riferisce l’evoluzione dell’umanità tutta. Semmai occorre trovare una risposta veramente “comunista” a tutto ciò, quindi una risposta prima di tutto economica per determinare quindi il grado di coscienza che gli sfruttati hanno rispetto alla loro condizione.
Scriveva ben più di quarant’anni fa un grande sindacalista come Andrea Sergio Garavini (primo segretario nazionale di Rifondazione Comunista, tra l’altro) che uno dei problemi principali del mondo operaio nella ricerca, nell’analisi di sé stesso, del suo mondo, quindi del modello d’allora di impiego della forza lavoro, era proprio la presa di consapevolezza di una “visione contemporanea, incrociata dalla ristrutturazione industriale dal lato della concentrazione e da quello della dispersione della produzione”.
Garavini suggeriva appunto l’incoscienza proletaria di allora per quanto concerneva una reale presa d’atto dell’insieme in cui il processo produttivo prendeva corpo e si estendeva ancora nel riflusso degli anni ’70, dopo la grande esplosione economica degli anni del dopoguerra.
Anche allora si parlava di “crisi”, ma si trattava di crisi dei modelli produttivi propri di un taylorismo che veniva scoperto lentamente da economisti, lavoratori sindacalisti e lavoratori impegnati in un serio agitamento politico gramscianamente inteso.
Dunque, il ciclo produttivo era messo sotto analisi perché allora si aveva coscienza dello sfruttamento che si pativa. Oggi, invece, manca questa consapevolezza e la parcellizzazione del lavoro corrisponde alla particolarizzazione delle coscienze, quindi alla fine crea una disarmonia strutturale nella acquisizione sociale di un fenomeno che investe centinaia di migliaia di lavoratori (quando non milioni…) e che invece viene vissuta singolarmente, senza una caratterizzazione “di classe”, per l’appunto.
Scriveva ancora Garavini in “Crisi economica e ristrutturazione industriale” (Editori Riuniti, 1974, pag. 54): “Fino a che questa mortificazione non diviene coscienza dei lavoratori, le conseguenze di queste contraddizioni sono contenibili in due direzioni. In primo luogo nel senso che almeno in certi gradi alti della gerarchia e in certi scomparti del processo produttivo il sistema riesce a garantire un minimo di spazio nel lavoro umano alla ricerca, all’invenzione, all’adattabilità. In secondo luogo, nel senso di predisporre un sistema esteso di controlli per accertare e correggere in qualche modo e misura i difetti della produzione, che provengono dalla rigidità dell’organizzazione del lavoro…“.
In pratica, meno coscienza hanno i lavoratori delle loro condizioni di sfruttamento, più il capitale riesce a riconfigurarsi nel sistema che cambia e ad adattare le sue storture per migliorare ancora il livello di produttività attraverso una capillare ricerca, soprattutto oggi, di rendere disomogenee realtà e percezione, così da mostrare ancora una volta che, in fondo, la lotta sociale contro il regime del profitto non porta conseguenze favorevoli se si “ostacola il progresso”.
Progresso che ha il volto del perfezionamento dei metodi di sfruttamento proprio in assenza di lotte sindacali e operaie che coinvolgano anche gli altri settori sociali di una popolazione tutta protesa invece a sconfiggere le fobie che le vengono indotte dal potere esecutivo e che sono i fantasmi di pericoli inesistenti.
Anche oggi come negli anni ’70, pur con metodologie organizzative della produzione assolutamente differenti, il sistema industriale si dibatte in queste contraddizioni e, usando le parole di Garavini, “non trova nessuna soluzione organica” per trovare la soluzione alla contraddizione che è egli medesimo in quanto sistema che necessariamente deve produrre ingiustizie su vasta scala se vuole sopravvivere.
Più che mai oggi il capitalismo è vittorioso ma, al tempo stesso, in crisi: lo si vede quando cerca puntigliosamente di sconfiggere le esperienze di alternativa che si sono sviluppate nel Sud America e lo fa adducendo le classiche motivazioni pelose sulle necessità democratiche, sulla libertà come feticcio essa stessa al regime monetario quando diviene merce di scambio tra nazioni pur limitandosi ad essere (e non potendo non essere altrimenti) altro se non la classica “libertà borghese”, quindi meramente civile (che pure è importantissima) ma che non risolve le problematiche di invivibilità e di ingiustizia sociale per miliardi di esseri umani, per miliardi di salariati.
Dunque, rispetto agli anni ’70 descritti da Garavini nella loro ristrutturazione industriale e nuovo adattamento alla modernità che all’epoca avanzava, i lavoratori oggi devono acquisire nuovamente una coscienza dell’essere sfruttati che hanno messo da parte o che non hanno mai conosciuto perché invasi nelle menti da mille pregiudiziali e paure, fobie e tensioni che non riguardavano i rapporti tra lavoratori di tutto il mondo ma tra autoctoni e stranieri.
Ancora una volta il capitalismo vince ma dimostra tutta la sua debolezza. E ne dimostra ancora di più se è costretto ad affidarsi ai sovranisti per mantenere una pace sociale davanti ad un aspetto globalizzante della produzione che avvolge l’intero pianeta: confini contro totalità, internazionalismo delle merci contro doganismo nazionalista.
Le contraddizioni aumentano ma gli sfruttati le subiscono (le accettano in parte consapevolmente) invece di utilizzarle al proprio legittimo vantaggio. Rivoluzionario. Questo, sì.
MARCO SFERINI
28 febbraio 2019
foto tratta da Pixabay