La rivolta popolare che devasta e incendia la “macronie”

Brucia la Francia. Quella dell’arroganza governativa, quella della riforma delle pensioni, quella della prevaricazione liberista sui diritti sociali, quella dove il disagio si è sostituito alla vita. E brucia...

Brucia la Francia. Quella dell’arroganza governativa, quella della riforma delle pensioni, quella della prevaricazione liberista sui diritti sociali, quella dove il disagio si è sostituito alla vita. E brucia quella dell’impossibile saldatura tra interessi comuni e particolari, tra centro e periferia, tra vertice e base della piramide.

Violenze, saccheggi, incendi di commissariati, di supermercati, di autobus ed auto sono la testimonianza di una differenza marcata tra la rivolta delle banlieue, le proteste dei Jilet jaune e una nuova fase della rabbia sociale: l’onda lunga delle manifestazioni contro la riforma pensionistica di Emmanuel Macron arriva a lambire l’omicidio del giovane Nahel e rimescola le carte di una politica che, in particolare a sinistra, cerca ancora un candidato per battere l’attuale inquilino dell’Eliseo.

La destra, invece, non perde tempo e si lancia nella crociata contro le devastazioni, per l’applicazione dello stato di emergenza, quasi si fosse nell’Algeria ancora coloniale e innanzi alle rivolte nazionaliste. Il sentimento di recrudescenza di una politica repressiva, per niente dialogante con i movimenti sociali e civili, è largamente diffuso. Un terzo delle persone che scendono nelle piazze di gran parte delle città dell’Esagono sono giovanissimi.

E’ innegabile che vi sia anche una parte di ribellismo fine a sé stesso, di strumentalizzazione delle proteste. Ma la stragrande maggioranza di chi protesta vive sulla sua pelle la saldatura tra compressione dei diritti sociali e repressione di quelli civili e democratici. I poteri di vita e di morte che ha la polizia sono ormai al centro di un dibattito che non può essere solamente sviluppato sul piano della sicurezza e dell’ordine.

Le violenze e i saccheggi, tuttavia, possono portare in dote questo elemento divisivo ed equivocante la presa di coscienza che, così stando le cose, molte libertà sono minacciate proprio dall’intersezione tra quel liberismo che doveva mettere un freno ai nazionalismi esasperati, alle destre estreme e che, invece, e una rappresentanza istituzionale dedita soltanto alla tutela dei privilegi delle classi dirigenti, medio-alte.

La rabbia delle periferie è, ormai, anche quella dei centri cittadini: il macronismo è stato tradito da quella parte “bianca” della popolazione a cui pretendeva di fare riferimento soprattutto come bacino elettorale trasversale, sottraendo così consensi tanto a destra quanto a sinistra.

Quei francesi bianchi e un po’ perbene sono scesi in piazza per contestare una controriforma della pensioni che aumentava l’età di abbandono del lavoro e che era, in sostanza, il manifesto della politica di un governo condiscendente verso le peggiori torsioni privatistiche, ispiratore delle medesime e delegittimante lo spirito egualitario della Repubblica.

L’omicidio del giovane Nahel non ha fatto altro che ricordare ai francesi che molti problemi di ieri sono irrisolti anche oggi e che se ne sono sommati tanti altri: ad iniziare dalle regole di ingaggio di una polizia cui è concesso l’uso delle armi in situazioni come quelle in cui si è trovato il diciassettenne ucciso a sangue freddo. Una semplice contestazione per una marcia dell’automobile sulla corsia degli autobus.

«Spegni il motore o ti sparo in testa», pare sia stata questa la frase pronunciata da uno degli agenti nei confronti del ragazzo. Poi, sempre secondo quanto affermato da uno degli occupanti della vettura, a Nahel sarebbe scivolato un piede dal freno mentre veniva colpito al volto col calcio della pistola. La macchina si sarebbe mossa e il poliziotto avrebbe finito col mettere in pratica la minaccia iniziale.

Disagio sociale, negazione dei diritti civili, repressione poliziesca, fede atlantica nell’aumento delle spese di guerra, ce n’è abbastanza per innescare una esplosione di rabbia in parte incosciente, in parte consapevole della posta in gioco: un disarcionamento del potere macronista, una affermazione di un nuovo corso politico che recuperi i valori laici, la libertà individuale e collettiva, l’egualitarismo e la fraternità di una grande democrazia che ha attraversato i secoli.

Il tema dell’integrazione, della condivisione degli spazi fisici con quelli del pensiero e della cultura, con una espressione piena delle peculiarità di ogni cittadino della Repubblica, rimane al centro di una discussione che abbraccia le questioni dirimenti di una società oggettivamente complessa, non riconducibile ad una dualità di posizioni; siamo in presenza di una molteplicità di fattori che impediscono all’economia e alla finanza di scendere a patti ormai facilmente con la protesta.

Di contro, la proposta fatica ad emergere come costrutto essenziale di una alternativa programmatica ed anche ideale della lotta. Il rischio che le violenze siano l’unico elemento caratterizzante della reazione all’omicidio dei Nahel e che, quindi, non si possa assistere alla (ri)nascita di un movimento di protesta che erediti tutte le lotte precedenti ed abbia nelle sinistre una spalla politico-istituzionale conseguente, è un rischio del tutto plausibile ma, indubbiamente, non auspicabile.

Evitare di trascinare l’opposizione alle politiche repressive, alla violenza della polizia sul piano della guerriglia urbana è un compito che spetta anzitutto alle grandi organizzazioni di massa: per primi i sindacati, le grandi centrali della cultura francese, i grandi apparati di lotta per i diritti civili e per quelli umani.

Non sempre, infatti, dalla protesta nasce una proposta; così, spesso, da quest’ultima non viene fuori una stagione di lotte che mirino, quanto meno, ad un riformismo degno di questo nome, ad un intervento che limiti o che metta la parola fine a certe politiche di governo.

Il ministro degli interni Gérald Darmanin solennizza così il piano del governo per arginare i tumulti: «E’ la Repubblica che vincerà». Già. Ma quale repubblica? Quella della grande classe industriale e padronale rappresentata dal governo di Macron. Non di sicuro quella dei moderni proletari (e sottoproletari) di quelle periferie dove infiamma un po’ da sempre la rivolta che, come si vede, non attende se non un fatto eclatante e gravissimo per divampare e provare ad avere ragione.

Quarantamila agenti dispiegati nelle varie città francesi, blindati per le vie di Parigi, oltre mille arresti (di cui un terzo minorenni): la risposta di Macron non è la riforma dei regolamenti di polizia, il dialogo anche indiretto con la popolazione. E’ definire i giovani come “intossicati dai videogiochi” e, per questo, completamente incapaci di esprimersi con quella civile e dignitosa forma di rimostranza che è l’accettazione delle regole democratiche.

Se esiste anche un aspetto emulativo tradotto dalla fantasia di un video alla realtà, l’incendio che si è propagato in tutta la Francia rende questo elemento una parte del tutto, un segmento di una più vasta e radicata sofferenza sociale che, ogni volta in cui si accende la scintilla a causa di una evidente ingiustizia, divampa e si allarga a più strati popolari, coinvolgendo pure una parte di quell’elettorato che Macron è riuscito a convincere una o più volte durante le sue campagne presidenziali.

La Francia deve fare i conti con una politica interna che segue la via della considerazione esclusiva del profitto come elemento fondante di una socialità, pertanto, inesprimibile fin dentro le sue più profonde potenzialità. Mentre in politica estera non si registra più l’asse con la Germania, lo scambio di reciprocità con Berlino che era divenuto il punto di equilibrio di una strategia parzialmente autonoma rispetto agli USA e agli altri blocchi imperialisti.

Con lo scoppio della guerra in Ucraina il ruolo della Repubblica francese nel conflitto, e quindi nelle ovvie relazioni interdiplomatiche, è divenuto largamente marginale, pur non essendo Parigi una sostenitrice di secondo piano della linea alleantista nordatlantica. La posizione geografica (e quindi pure geopolitica) di migliore rilievo l’hanno avuta indubbiamente la Turchia di Erdoğan e i paesi scandinavi.

I funerali di Nahel si terranno tra poche ore e, per quanto possano essere vicini al contesto infiammato di una nazione in preda al sommovimento sociale e alla rivendicazione di diritti che uniscono bisogni quotidiani a necessità di più lungo respiro, sono soltanto un tratto di evidenziamento di problemi ben più sedimentati nella Francia che sta a metà tra l’europeismo e la fedeltà alla NATO.

Il liberalismo d’un tempo, che aveva oltrepassato ormai da lunghissime stagioni i fronti popolari e, in seguito, anche il gollismo (che ne era stato politicamente alleato), oggi è un ricordo sbiadito e non rivive certamente nella fallimentare presidenza di Emmanuel Macron. Il tutto, si intende, da un punto di vista sociale, di sinistra, progressista. Ed è per questo che Marine Le Pen ha gioco facile nel presentarsi ancora come l’unica possibile alternativa alla “macronie“: perché l’opposizione politica deve rinsaldarsi attorno ai valori laici di una società sempre più diseguale.

E deve rinnovare un patto tra generazioni che, nel caso francese, comprende anche aspetti che vanno dall’etnia alla religione, dalla fine del colonialismo al rapporto con quei territori d’oltremare che sono ancora parte di un retaggio comunque di dominazione pregressa e oggi molto anacronistica.

Lo stato di emergenza, a cui per ora il governo non intende dare seguito, sarebbe, se applicato, una conferma della linea esclusivamente securitaria e repressiva che la maggioranza e l’Eliseo intendono perseguire. L’appello a far cessare le devastazioni e i saccheggi è giusto ed esigibile: per niente lo è il far rientrare la sommossa sociale in un perimetro di insofferenza che riguarda solo un aspetto meramente psicologico del disagio. La povertà non è una astrazione mentale, è un tremendo dato di fatto.

MARCO SFERINI

1° luglio 2023

foto: screenshot tv

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