La politica italiana, nel corso degli ultimi decenni, ha assorbito una tendenza ad uniformarsi ad un individualismo esasperato, ad una emergente sopravalutazione del singolo: fuori dalle istituzioni, nella politica “sociale” (quindi nella società propriamente detta), questa espressione molto attuale dei rapporti tra movimenti e partiti si è mostrata in tutta evidenza con la personalizzazione delle stesse forze politiche, con la valanga di nomi e cognomi che hanno invaso i simboli elettorali, oltre ai consueti spazi che si prendevano sui tabelloni, sui giornali e sulle televisioni i diversi candidati.
La rivoluzione egocentrica della nostra politica risponde ad una impostazione globale, non solo elettoralistica o istituzionale, ma per l’appunto strutturale e quindi economico-sociale, dove la regola fondamentale è la concorrenza spietata a discapito della qualità delle merci e, di riflesso, sovrastrutturalmente, il discapito aderisce impietosamente alla solidità dei contenuti e delle proposte anche più longeve nel tempo.
Il logorio della vita moderna è tornato di moda, ma non è restringibile alla cintura urbana della vecchia “Milano da bere“. La consunzione delle pratiche è direttamente collegata all’anemia di pensiero, alla sclerotizzazione delle idee, considerate come degli accidenti di percorso: tutto deve essere semplice, semplificato e non complicato dai ragionamenti e dalla dialettica che li comprende e li alimenta.
La destrutturazione dell’organizzazione partitica, portata avanti sulla scia antidemocraticamente malsana della teoria sulla “fine delle ideologie“, la fine dei grandi partiti di massa (DC, PCI, PSI in primis) vanno ben oltre il confine meramente temporale e ormai storico tra la cosiddetta “prima” e “seconda repubblica“. Anzi, proprio l’epopea berlusconiana, che segue la fase tangentopolizia, è l’opposto di quella catarsi sognata e immaginata da chi pensava che la magistratura avesse iniziato una rivoluzione che la politica avrebbe poi continuato. Non è stato così. Nessun meccanicismo, nessuno spontaneismo richiamabile al ruolo di genitori di una nuova società italiana.
Senza ideologie, senza idee, senza più organizzazioni di massa, ha prevalso e prevale tutt’oggi la massima personalizzazione di concetti molto vuoti, privi di retaggio culturale, ma indubbiamente fin troppo intrisi di secolari pregiudizi che hanno attraversato tutte la lande tutt’altro che desolate delle tentazioni qualunquiste e populiste d’Italia. Non sono più i programmi a fare i partiti e le loro politiche; sono i leader che di volta in volta salgono alla ribalta ad essere la prima fonte di ogni ispirazione per tutti.
Non si segue una visione della società, ma l’interpretazione che ne dà il capofortuna gaetaniano di turno. L’uomo o la donna soli al comando sono molto più riconoscibili e politicamente affascinanti di un cumulo di proposte che sono vissute come mera retorica. Banale è il contenuto, pieno di senso è la forma, il corpo del segretario del partito che diventa un moloch di nuova generazione. Diversamente dai vecchi mostri sacri della nostra storia repubblicana, che hanno dato alle varie fasi della vita italiana una impronta che era inscindibile dal ruolo fondamentale dell’organizzazione politica, dal berlusconismo in poi il corpo del leader è taumaturgico di per sé.
Soprattutto quando sbaglia, il leader è nel giusto, perché l’errore lo umanizza anche se vuole apparire ricolmo di certezze e mai incerto nel sapere dove dirigere sia il suo partito sia il Paese. Il bene del Paese ha sostituito, in questo senso, il richiamo costante alla “libertà“, che era tipico della prima parte della farsa forzitaliota, con quello che punta a convincerci di una “gestione” contingente che, nel rispettare i parametri internazionali, non farebbe che ottemperare ai bisogni di tutti i cittadini.
Non siamo ancora del tutto nel cono d’ombra della “democratura“, perché almeno formalmente il governo Draghi ci “rassicura“: è lì provvisoriamente ma intende durare; sostiene di voler traghettare la transizione dalla pandemia al post-pandemia ma intanto lavora ad una ristrutturazione economica del capitalismo italiano con premesse che garantiscono certezze solo ai padroni; accontenta un po’ tutti, sinistre moderata, destre centriste e destre sovraniste unendo princìpi liberisti e difesa dei valori costituzionali, e facendo così strame dei fondamentali princìpi su cui dovrebbe poggiare un rinnovamento sociale durante e dopo una crisi sanitaria come quella che abbiamo e stiamo ancora attraversando.
L’arrivo di Draghi non ha messo da parte le pulsioni individualiste della politica italiana. Semmai ha concesso loro del tempo per riorganizzarsi, per ristabilire contatti che si erano andati perdendo in questo anno e mezzo di comunicazione unidirezionale omnicomprensiva di tutte le tematiche scientifiche e mediche sul Covid-19. Le destre ne hanno approfittato alacremente, con un piglio non nuovo ma adatto ai tempi, surclassando quel riformismo liberista di centro che si fa chiamare “sinistra” ed anche il populismo pentastellato in agonia di consensi, alla ricerca della salvezza tramite Conte.
Se parliamo di ristrutturazione capitalista sul piano economico (e sociale), possiamo oltremodo parlare di ridefinizione dell’impronta individualistica della politica italiana. Struttura e sovrastruttura vanno a braccetto, si complementano e si sostengono a vicenda: nell’attesa che arrivi un governo meno rispettoso delle forme, quindi non più di garanzia istituzionale e di unità nazionale, ma politico in ogni senso. Di parte. Ma dall’altra parte non c’è alcun sintomo incoraggiante che possa far sperare in una ripresa dell’antitesi alle destre: una antitecitià concreta e non sempre e soltanto capace di barattare i diritti sociali con la difesa dei diritti civili.
L’alleanza giallo-ros(s)a scricchiola un po’ ovunque, in particolare in vista delle elezioni amministrative e non offre alcuna possibilità di recupero di un sentire comune che non può essere interpretato con riforme ancora una volta legate alle esigenze esclusivamente del mercato e dell’impresa. Ma, almeno fino ad ora, questo pare essere il dualismo che riprende la sua penosa esistenza in Italia nell’agorà politica di una estate dove si muore di lavoro, assassinati da tir che forzano i picchetti degli scioperanti, mentre a scorrere i giorni sul calendario pare d’essere tornati per davvero indietro di tanto, tanto tempo.
Ma senza sinistra, senza alternativa, senza voglia di cambiamento, senza voglia di idee chiare. Solo di leader, di capi, di volti che sostituiscono le idee e diventano essi stessi un programma politico. Un brutto programma.
MARCO SFERINI
19 giugno 2021