Lavorare meno, lavorare tutti. La proposta è arrivata dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Questa norma temporanea sarebbe allo studio del governo in particolare per dare risposta ai problemi concreti che si verificheranno nelle imprese per le misure si distanziamento interpersonale e per il protocollo di sicurezza anti-Covid: i turni andranno riorganizzati, meno dipendenti potranno lavorare nello stesso momento. Quindi un’alternativa alla cassa integrazione potrebbe essere proprio il taglio dell’orario di lavoro per mantenere gli stessi livelli occupazionali.
Ritorna quindi in campo un tema antico che fin dalla battaglia per le 8 ore del tempo della rivoluzione industriale è periodicamente riaffiorato nel dibattito sulla modifica delle relazioni industriali.
Vale la pena ripercorrere una parte di questo itinerario, partendo dalle proposte emerse subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e l’apertura della fase della ricostruzione.
Una ricostruzione che presentava caratteristiche ben diverse dal tipo di situazione economica in cui ci trova adesso nell’emergenza sanitaria.
In Italia, così come nella maggior parte dei paesi europei, l’obiettivo primario e condiviso dalle parti sociali era la ricostruzione del paese distrutto dal secondo conflitto mondiale. In occasione del secondo congresso della CGIL, nel 1949, venne rivendicata la settimana di quaranta ore finalizzata al riassorbimento della disoccupazione.
Di tale questione si era occupata anche l’Assemblea Costituente che, nell’articolo 36 della Costituzione della Repubblica Italiana, stabilì una riserva di legge in materia di orario di lavoro. L’occupazione aumentò con la meccanizzazione e la riorganizzazione dei processi produttivi, con la creazione delle catene di montaggio, con la crescita della domanda estera dapprima ed interna poi .
Nel settore industriale italiano il progresso tecnologico, pur presente e rilevante, non ebbe i ritmi ed i livelli degli altri paesi più industrializzati. Gli industriali italiani puntarono maggiormente sull’aumento dei ritmi di lavoro e sui bassi salari per mantenere bassi i costi per unità di prodotto e quindi alta la competitività; competitività che diversamente non avrebbero avuto nei confronti di altri Paesi dove le imprese adottavano impianti tecnologicamente più avanzati.
Nel frattempo le battaglie per una riduzione dell’orario di lavoro tornarono a prendere vigore: in un documento del 1955 della FIOM di Torino, si richiedeva alle principali imprese piemontesi un orario settimanale di trentasei ore per gli addetti alle lavorazioni più pesanti, e di quaranta ore per tutti gli altri lavoratori, a parità di salario. Il primo risultato ottenuto dai sindacati in materia di orario fu quello del 1956: la FIAT e la Olivetti concessero una riduzione d’orario di due ore settimanali.
Alla Olivetti venne costituita una Commissione Paritetica dei Tempi con il compito di prendere in esame i contenziosi sui tempi di lavoro. Nel 1957 venne siglato dalla FIAT, dalla CISL e dalla UIL (ma non dalla FIOM) un accordo sulla riduzione dell’orario settimanale a quarantaquattro ore, che diede all’azienda la facoltà di far variare l’orario settimanale tra le quarantaquattro e le cinquantaquattro ore, a seconda delle esigenze della produzione stabilite dall’azienda stessa.
In occasione del Quinto Congresso della CGIL tenutosi a Milano nel 1960, la confederazione ripropose la richiesta già avanzata in occasione del Secondo Congresso del 1949: la settimana lavorativa di quaranta ore senza decurtazione del salario rispetto a quella di quarantotto ore.
Una legge che stabiliva l’orario settimanale di quaranta ore per i minatori fu approvata nel 1960 ed il medesimo risultato fu ottenuto con il rinnovo contrattuale dai lavoratori del tabacco.
Con i rinnovi dei contratti dell’anno seguente altre categorie ottennero riduzioni: i lavoratori dell’ENI ottennero l’orario di quarantadue ore, mentre i tipografi dei giornali quotidiani contrattarono un orario settimanale di trentasei ore. Nel 1964, le delegazioni delle federazioni dei lavoratori tessili, ottennero che la settimana di quaranta fosse pagata come quella di quarantotto ore con due giorni consecutivi di riposo settimanale. Negli anni successivi vennero inoltre incrementate le pause, considerate ora come componente dell’orario di lavoro effettivo e non più come interruzioni di lavoro.
Durante l’ “Autunno Caldo” del 1969 le lotte del movimento operaio iniziarono a rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore per tutte le categorie, con il ricorso allo straordinario per un massimo di otto ore settimanali. I risultati conseguiti dalle agitazioni furono molto significativi: tutte le maggiori categorie di lavoro dell’industria conquistarono contratti in cui era prevista la settimana lavorativa di quaranta ore, divise in genere su cinque giorni lavorativi, da attuarsi entro il 1972.
Gli anni Sessanta si chiusero, in Italia, con le premesse per la conquista da parte di quasi tutti i lavoratori di contratti collettivi che prevedevano la settimana lavorativa di quaranta ore, anche se, dal punto di vista normativo, era ancora in vigore la legge fascista del 1923 che prevedeva che l’orario di lavoro settimanale non superasse le quarantotto ore. Un tentativo di ridurre l’orario di lavoro per via legislativa venne fatto nel 1967, quando, per iniziativa del Consiglio Nazionale per l’Economia e per il Lavoro, venne presentato al Parlamento un disegno di legge sull’orario di lavoro, il riposo settimanale e le ferie, volto a sistematizzare la materia in modo organico. Tale progetto, però, non venne approvato e si dovette attendere ancora un trentennio perché fosse approvata una legge che decretasse la durata della settimana di lavoro a quaranta ore.
Nel corso degli anni Settanta, grazie ad un lungo e complesso processo negoziale, si andò affermando e diffondendo un modello di organizzazione del tempo di lavoro di tipo fordista, caratterizzato dall’uniformità degli orari di lavoro.
L’orario tipico era di otto ore giornaliere, collocate nel periodo diurno, per cinque giorni la settimana, ed era “rigidamente predeterminato secondo schemi prefissati, che tendono a non subire variazioni significative per tutta la durata del rapporto di lavoro”.
Il modello standard di orario di lavoro entrò in crisi a partire dagli anni Ottanta, quando le imprese, per far fronte alla concorrenza estera attuano una politica di riduzione dei costi per unità di prodotto attraverso l’aumento della durata di funzionamento degli impianti, con il conseguente ricorso a turni di lavoro decisamente più pesanti di quelli sperimentati nel decennio precedente. Il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro si riaprì con l’inizio degli anni Ottanta e viene affrontato sotto una diversa luce. Mentre negli anni Cinquanta e Sessanta i sindacati chiedevano la riduzione dell’orario per migliorare le condizioni di lavoro e per tutelare la salute fisica e psichica dei lavoratori, negli anni Ottanta si poneva l’accento sulla necessità di ridurre gli orari di lavoro per far fronte alla crescente disoccupazione.
Quel periodo fu contrassegnato dallo slogan “Lavorare meno lavorare tutti” teoria sviluppata da pensatori come il francese André Gorz o da noi Pierre Carniti segretario generale della Cisl e da economisti come il premio Nobel Wassily Leontief.
Nell’agosto del 1980 l’Istituto Sindacale Europeo rilevò che in tutti gli Stati della Comunità il tasso di disoccupazione aveva raggiunto livelli preoccupanti, e lanciò un appello per ridurre l’orario settimanale da quaranta a trentasei ore, al fine di far fronte alla perdita dei posti di lavoro. Nei rinnovi contrattuali del 1983, tuttavia, non venivano previste riduzioni d’orario, bensì forme di flessibilità dell’orario stesso a vantaggio dei datori di lavoro e l’ampia possibilità di ricorrere allo straordinario sembra essere la peculiarità di questo decennio.
Nel corso degli anni Ottanta si assiste ad un crescente divario tra orari contrattuali e orari di fatto, dovuto al continuo incremento dell’orario straordinario: mentre l’orario contrattuale è stato ridotto dal 1980 al 1992 di quasi sessanta ore annue, quello effettivo è aumentato nello stesso periodo di novanta ore. Risultava infatti più conveniente per le imprese pagare ore di straordinario piuttosto che assumere nuova manodopera, con notevoli costi per la formazione oltre all’obbligo di sottostare ai vincoli introdotti dallo Statuto dei Lavoratori.
La conseguenza di ciò, aggiunta al sempre più frequente utilizzo da parte degli industriali di innovazioni tecnologiche che sostituivano il lavoro umano, fu un nuovo, forte incremento della disoccupazione. I sindacati riaprirono pertanto il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro: incominciò a farsi strada la proposta della settimana lavorativa di trentacinque ore.
Nel 1992 Fausto Bertinotti, ex segretario confederale della CGIL poi segretario di Rifondazione Comunista, per la prima volta propone “una legislazione di sostegno ed una generalizzata riduzione degli orari di lavoro”. L’anno successivo anche la CISL si muove nella stessa direzione, per voce del suo segretario generale Sergio D’Antoni.
Le richieste di riduzione dell’orario di lavoro avanzate negli anni Novanta riproponevano alcuni argomenti che furono di sostegno alle analoghe rivendicazioni degli anni Trenta.
Un’ ipotesi individuava una delle determinanti della crisi occupazionale nel corso della metà di quel decennio in una combinazione negativa tra un’insufficiente crescita della domanda aggregata (soprattutto nazionale) e un più elevato aumento della produttività media del lavoro.
La crisi occupazionale degli anni Novanta vedeva però un aumento impetuoso del progresso tecnologico che produceva impianti sempre più mirati a risparmiare lavoro (labour saving), decretando ulteriori innalzamenti del tasso di disoccupazione. L’ipotesi di favorire l’occupazione frenando il progresso tecnologico, seppur a volte lumeggiata, è risultata tanto controproducente quanto vana, mentre ridurre l’orario di lavoro per aumentare l’occupazione appariva un’idea non nuova che ritornava periodicamente all’ordine del giorno in modi, tempi e luoghi diversi, quando si acuiva il problema della disoccupazione.
Già Keynes (1931) aveva profetizzato per la fine del Ventesimo secolo quindici ore settimanali di lavoro in base ai prevedibili aumenti di produttività e, anche se in tali scritti non vi è un esplicito riferimento agli effetti sull’occupazione di un orario così ridotto, è tuttavia difficile pensare che tali effetti non fossero presenti nella mente di un autore tanto attento agli sviluppi futuri dell’organizzazione del lavoro.
A partire dal riconoscimento della settimana lavorativa di otto ore il progresso tecnologico è continuato a crescere, ma questo incremento non ci ha condotti ad una proporzionale riduzione del nostro orario di lavoro; l’energia nucleare, il computer e un numero indefinito di altre invenzioni che parevano un invito aperto ad una vita più comoda e facile ci avrebbero potuti condurre ad un risultato che, all’inizio, appariva quasi scontato: un aumento del nostro tempo libero. Ma oggi ci accorgiamo che la realtà ha invece percorso una strada diversa: la vita moderna è una confusione frenetica fatta di lunghi spostamenti, notti passate a lavorare fino a tardi, famiglie che dipendono da due redditi e ricorrono a terzi per svolgere i lavori domestici e di cura della famiglia. E sembrava che l’intera società avesse deciso di accettare questa situazione come lo stato naturale delle cose.
Oggi la situazione determinata dalla crisi sanitaria ha aperto la possibilità di un discorso diverso che affronti prima di tutto sia i paradigmi concettuali sia le conseguenti politiche economiche che hanno governato l’Italia e l’Europa negli ultimi decenni, moltiplicando i livelli di disuguaglianza.
Fiumi di denaro saranno immessi nell’economia reale, soprassedendo ai dogmi su deficit e debito. Sicuramente però le modalità adottate per affrontare la recessione potranno tradursi in ulteriore svendita del patrimonio pubblico e impoverimento dei lavoratori.
Sarà dunque decisiva la qualità di rivendicazione che sapranno imporre le forze sociali organizzate, innanzitutto il sindacato.
Debbono emergere due condizioni necessarie.
C’è la condizione economica: la possibilità di investire denaro pubblico per avviare la transizione verso una nuova organizzazione del lavoro e consolidarla fino a farla diventare ordinaria, predisponendo fin da ora le opportune leve di incentivo /disincentivo fiscale e contributivo. La mera estensione di congedi, cassa integrazione, bonus reddituali è doverosa nell’emergenza, ma non potrà determinare cambiamenti strutturali.
La seconda condizione sarà quella della ricerca di una nuova cornice di senso: la drammaticità reale e percepita del momento indica che non ci si può affidare a ricette logore o pavide, ma occorre osare qualcosa di nuovo e di ambizioso. Soprattutto, il discorso pubblico è già permeato dai media con messaggi di due tipi, complementari fra loro : paura individuale e speranza collettiva. I sacrifici richiesti oggi e i timori per il futuro che “non sarà più come prima” vengono alleviati dal senso di comunità (i canti dal balcone e le bandiere) e dalla solidarietà come strumento per uscire dalla crisi (la riconoscenza per l’abnegazione dei lavoratori della sanità, stare a casa per non contagiare altri, i volontari che portano la spesa, gli aiuti e gli studi internazionali condivisi).
Poco importa soffermarsi sull’autenticità e la reale incidenza di tali sentimenti sulla realtà. Occorrerà allora rielaborare un progetto di “senso del lavoro” sintonizzato a rispondere alla paura di perderlo o di non ritrovarlo. Ci vuole un progetto collettivo di solidarietà oggi più che mai comprensibile e condivisibile.
E’ necessario allora rendersi conto che la riduzione degli orari non genera una distribuzione aritmetica del lavoro, che molte imprese avevano già una sovra-capacità produttiva, aggravata ora dal calo degli ordini, e non assumeranno nuovo personale nell’immediato. Permarrà la necessità di creare occupazione buona e utile, a partire dal settore pubblico martoriato.
Sappiamo inoltre che le crisi economiche sono anche fasi di rottura che ridisegnano molto velocemente i sistemi e le catene produttive, nazionali e internazionali, addirittura all’interno di una logica di nuovo bipolarismo sul terreno militare.
Non è realistico immaginare di tornare “come prima” dopo una crisi planetaria, ma nemmeno auspicabile, visto che prima c’erano già milioni di persone oppresse dalla povertà o dallo sfruttamento.
Se ne potrà uscire peggio di prima, ma anche meglio di prima, volgendo lo sguardo (la cornice) e i passi (le politiche) verso altri orizzonti.
La proposta della semplice riduzione dell’orario di lavoro appare così come avanzata in questi giorni almeno improvvisata in una logica populista come quasi tutti i provvedimenti fin qui pensati dal Governo.
Un progetto di rielaborazione di senso sul tema del lavoro dovrà misurarsi rispetto alle esigenze di complessiva trasformazione del modello di sviluppo, delle richieste di diversa flessibilità collegata al rapporto da stabilire tra tempi di lavoro e tempi di vita, di espressione di nuova contrattazione richiesta dall’imporsi dell’utilizzo dello smart working, di collegamento con le esigenze di regolarizzazione di cittadinanza necessaria per i lavoratori migranti,del muoversi nella direzione di una effettiva concezione del riconoscimento della diversità di genere.
Il quadro generale dovrà essere fissato dai termini di un recupero di produttività rivolto verso la crescita di un “capitale sociale” considerato come la risorsa per lo sviluppo dell’individuo e del gruppo nell’intento di generare assieme valore e formazione permanente.
Si dovrà disegnare un quadro di vero e proprio mutamento di paradigma richiesto dalla necessità di individuare una “finalità comune” stando dalla parte delle sfruttate e degli sfruttati nell’insieme degli obiettivi del lavoro umano
Il movimento dei lavoratori possiede valori storici e simboli potenti, in cui oggi molti possono tornare a riconoscersi in un momento che ci accomuna nelle paure e nelle attese, ben oltre la frammentazione lavorativa e sociale che ha imposto nel più recente passato pericolose divisioni.
FRANCO ASTENGO
13 maggio 2020
Foto di Gerd Altmann da Pixabay