Siamo davvero giunti a due passi dalla riconciliazione nazionale palestinese oppure siamo di fronte all’ennesimo proclama di buone intenzioni destinato a non essere seguito da passi concreti come è avvenuto in passato? L’interrogativo è lecito. Tutti ricordano, nel 2014, l’enfasi con cui fu annunciata la “pace” tra il partito Fatah, guidato dal presidente Abu Mazen, e il movimento islamico Hamas che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza. Le due parti, assieme ad altre forze politiche palestinesi, formarono anche un governo di unità nazionale. Tutto naufragò nei mesi successivi. E la situazione oggi non appare molto diversa.
I dirigenti di Hamas, dopo intensi colloqui con l’Egitto durati settimane, hanno annunciato due giorni fa di aver sciolto il “Comitato amministrativo” formato a inizio anno – in questi nove mesi ha svolto a Gaza le funzioni di un governo vero e proprio -, quindi hanno dato il via libera ad elezioni politiche generali (sarebbero le prime dal 2006), infine hanno assicurato che permetteranno a un esecutivo di intesa nazionale di estendere la sua autorità su Gaza. In pratica hanno accettato le tre richieste fatte da Abu Mazen per mettere fine alla sua linea del pugno di ferro a Gaza che in questi ultimi mesi l’hanno visto abolire finanziamenti e sussidi, ridurre del 40% il pagamento della bolletta energetica della Striscia, mandare in pensione migliaia di dipendenti pubblici e tagliare del 30% lo stipendio a quelli in servizio (anche se costretti da 10 anni a non lavorare per boicottare Hamas). Non sorprende la (cauta) soddisfazione del presidente palestinese e quella di alcuni dei più importanti dirigenti di Fatah per la “vittoria” ottenuta.
Il capo dei negoziatori di Fatah, Azzam al Ahmed, andrà al Cairo entro 10 giorni per un primo colloquio con il capo della direzione politica di Hamas, Ismail Haniyeh, e il responsabile per la Striscia di Gaza, Yahya Sinwar. A questo incontro dovrebbe seguire un vertice a cui parteciperanno tutte le forze politiche palestinesi con l’obiettivo di eliminare tutti gli ostacoli all’intesa nazionale. Ci sarà poi l’accordo? E in quel caso sarà applicato? I dubbi sono forti tra i palestinesi. Le difference ideologiche e strategiche tra Hamas e Fatah sono molto ampie. E se è chiaro che gli islamisti, mostrandosi flessibili con i mediatori egiziani e dicendosi pronti ad accogliere le richieste di Abu Mazen cercano di rompere l’isolamento in cui sono caduti (anche nel resto regione), è altrettanto evidente che i nodi principali non sono stati sciolti. A cominciare da quello della sicurezza. Hamas a Gaza ha un braccio armato, Ezzedin al Qassam, ben armato e ben addestrato, di cui fanno parte migliaia di uomini. Questi miliziani risponderanno agli ordini di Abu Mazen o a quelli di Ismail Haniyeh quando sarà formato il governo di intesa nazionale? Un compromesso è possibile ma pochi credono che Ezzedin al Qassam possa accettare la piena autorità dell’Anp. Un altro nodo sono gli oltre 40mila dipendenti pubblici dell’amministrazione civile di Hamas a Gaza. Abu Mazen ha sempre detto che l’Anp non includerà mai queste persone tra i suoi impiegati. Hamas invece insiste perché ciò avvenga.
Qualcuno teorizza una manovra dell’Egitto volta a colpire Abu Mazen. «Il Cairo non ha dimenticato il secco rifiuto del presidente palestinese alla riconciliazione con (il suo avversario ed ex dirigente di Fatah) Mohammed Dahlan, sulla quale insiste ancora il Quartetto arabo (Egitto, Arabia saudita, Emirati e Giordania,ndr)», dice al manifesto il giornalista di Gaza Aziz Kahlout. «Dovesse fallire ancora una volta il processo di riconciliazione nazionale» avverte Kahlout «gli egiziani non esiteranno ad addossare la colpa ad Abu Mazen, dipengendolo come troppo rigido nei confronti di Hamas che era pronto ad accettare le sue richieste». In quel caso, prevede il giornalista, «gli egiziani faranno un accordo proprio con Dahlan per migliorare le condizioni di Gaza in modo da promuoverlo come futuro leader palestinese, accordo che senza alcun dubbio sarà accettato da Hamas».
Da parte sua Abu Mazen in questo momento si concentra su altro. A New York, dove è giunto ieri, si prepara ad incontrare Trump, prima del suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu. Secondo le indiscrezioni proverà a strappare al presidente americano l’impegno degli Usa a sostegno della nascita di uno Stato palestinese accanto a Israele. Un tentativo destinato quasi certamente a fallire tenendo conto della posizione espressa a più riprese dall’Amministrazione Usa contraria a qualsiasi soluzione predefinita nel conflitto israelo-palestinese, a cominciare proprio da quella a “Due Stati”, che pure è stata sostenuta per oltre venti anni da Washington e dal resto dei governi occidentali. Un fallimento potrebbe spingerlo a ricercare, come in passato, il riconoscimento della Plaestina al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
MICHELE GIORGIO
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