Fausto Bertinotti, parlamentarista convinto, spiega che battersi per il parlamento in queste condizioni significa difendere un simulacro. Pie Ferdinando Casini, senatore imposto dal Pd ai suoi elettori bolognesi, parte lancia in resta contro le liste bloccate e i candidati paracadutati.
Gianfranco Fini, che mollò Berlusconi e ne anticipò la crisi e poi aprì al governo Monti, stronca i governi tecnici, fonte di ogni male. Gli ex presidenti della camera sono così, hanno alle spalle una storia politica lunga e tante curve a gomito, ma a vederli uno accanto all’altro a (ri)parlare di riforme ci si diverte persino, tanto serrati sono i loro litigi.
Fini, che ci tiene al ruolo di consigliere anziano di Meloni assai più di quanto lei voglia riconoscerlo, è per principio favorevole al disegno di legge di riforma costituzionale firmato dal governo. In nome del fatto che lui e prima di lui il Msi sono sempre stati «presidenzialisti convinti» (pazienza che questa non sia esattamente una proposta presidenziale e nemmeno semi).
La sua difesa del progetto di Meloni è tanto ferma nelle intenzioni quanto traballante nelle argomentazioni, tipo «i poteri del presidente della Repubblica non vengono toccati perché resta presidente del Csm e riceve le credenziali degli ambasciatori».
Siamo alla camera dei deputati, ospiti dell’associazione ex parlamentari e della stampa parlamentare, e c’è anche una quarta vecchia gloria, Carlo Scognamiglio Pasini, tuttora però più noto come ex velista che come ex presidente del senato dunque meno loquace.
A margine Fini ammetterà che il premierato Meloni style se non va bocciato non può ancora essere promosso. Rimandato: «Aspetto di vedere come il parlamento lo modificherà, perché credo e spero che lo modificherà».
Casini poco prima lo aveva incalzato con la perfidia che solo i democristiani custodiscono, ricordandogli il suo ruolo nella nascita del governo Monti: come fa a dire adesso che i governi tecnici sono il male? La sua replica – «mi spiego meglio, sono proprio i difetti del sistema istituzionale attuale a rendere talvolta inevitabili i governi tecnici» – aveva lasciato però inevasa la questione: Fini, all’epoca, era favorevole o contrario alla nascita del governo Monti? (remainder: era favorevole).
Casini è qui in veste voce della verità: «Non prendiamoci in giro, la riforma proposta dal governo cambia tutto a partire dalla funzione di terzietà del capo dello stato, al quale vengono tolti i poteri di moral suasion». Bertinotti è attestato sulla linea apocalittica: «Andiamo verso una democrazia autoritaria che sradica il suo futuro dalle radici democratiche e antifasciste della Repubblica, la riforma è il terminale del ciclo regressivo».
Nel complesso, fatta salva la difesa d’ufficio di Fini, il progetto di riforma di Meloni esce fuori malissimo dalla giornata. Più o meno quello che sta accadendo nelle audizioni parlamentari e infatti non c’è nessuno disposto a scommettere che il testo resterà tale e quale.
E forse non a caso quando dal palco chiamano a intervenire il consigliere in questo campo della presidente del Consiglio, il professore costituzionalista Francesco Saverio Marini (qualificato, con una gaffe rivelatrice, «il vero autore della riforma») lui non c’è, non risponde. Gelo in sala, oggi i difensori del premierato devono accontentarsi di Fini.
DOMENICO CIRILLO
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