La repubblica del ceto medio nella finanziaria del governo

Non si è mai trattato di una destra sociale che si univa ad una liberista per scalare la vetta di Palazzo Chigi. Si è sempre e soltanto trattato di...

Non si è mai trattato di una destra sociale che si univa ad una liberista per scalare la vetta di Palazzo Chigi. Si è sempre e soltanto trattato di una sola destra economica, reazionaria nella più politica ed economica traduzione fattuale del termine. Di questo ci raccontano le cifre della manovra di bilancio che, a tappe forzate, andrà verso la fiducia delle Camere per evitare di incorrere nell’esercizio provvisorio dello Stato.

La nuda e cruda realtà dei dati elettorali, dei flussi di voto da una forza politica all’altra, in questi ultimi trent’anni evidenzia la scelta, da parte di una consistente fetta del ceto medio (artigiani, commercianti, piccoli imprenditori), di fare leva sugli istinti popolari che vengono solleticati ad ogni cambio di legislatura e, comunque, tra una crisi di governo e un’altra, per consolidare tutta una serie di riforme politiche che vadano a sostenere gli interessi esclusivi di una classe che sta tra la grande impresa e il mondo del lavoro salariato.

Il governo Meloni a questa terra di mezzo di privilegiati, largamente tali grazie all’alto tasso di evasione fiscale che vi si registra, concede con l’attuale manovra economica un salvacondotto attraverso la crisi strutturale che il liberismo europeo attraversa tra guerra in Ucraina, concorrenza abituale con il giganteggiare del sistema cinese e con quello più “amico” atlanticamente nordamericano.

Sistematicamente, con una regolarità impressionante, questa classe intermedia, che tuttavia non rappresenta appieno quel “centro” politico che si esprime nelle urne anche grazie al sostegno del confindustrialismo e dei suoi accoliti, è capace di determinare la salita in percentuale di una forza politica oltre quella soglia sondaggistica del 30% che le garantisce una certa stabilità nel momento in cui arriva a governare il Paese.

E’ un interclassismo che si ravvisa con una variabilità di base e con una certezza di vertice. Facciamo l’esempio del “periodo pentastellato“: quanto i Cinquestelle raggiungono ed oltrepassano quel 30% che ne fa, quindi, il partito di maggioranza relativa nelle urne e di maggioranza quasi assoluta in Parlamento, al pari delle esperienze governative a trazione PD, hanno un vastissimo consenso popolare e un gradimento che va ben oltre il loro elettorato.

Anche chi diserta le urne o chi vota per altre forze politiche, soprattutto a sinistra, non li percepisce come diretti avversari: semmai come “altro da sé stessi“, come lontani, ma non certamente diametralmente opposti.

E’ il compromesso di governo che aliena al M5S quel blocco sociale che fa tuttuno con quello politico: l’alleanza contrattuale con al Lega di Salvini li colloca esplicitamente a destra, nel solco del populismo fiancheggiatore del sovranismo e impedisce, quindi, di rendere concreto il poteziale di base che sembravano poter dispiegare solitariamente. Almeno nelle loro intenzioni.

Il trasformismo italiano ci mette sempre del suo nel pervertire anche le più nobili intenzioni: deturpa la dialettica politica, ne fa strame e la piega ad una serie di capovolgimenti che finiscono con il sostenere le parti più estreme di uno schieramento antisociale che un tempo votava il Pentapartito (privilegiando il consolidato potere democristiano), che è transitato nel ventennio berlusconiano con qualche capolino ulivista, in chiave squisitamente ruffiana sul terreno dell’europeismo, ed oggi si rivolge prima ai governi tecnici e poi alle nuove destre per continuare a mantenere intatti i propri interessi di classe.

Il cento medio, unitamente al camaleontismo della politica italiana, se non decide proprio, quanto meno influenza anche le prese di posizione degli estremi: del grande padronato da un lato, della grande massa di sfruttati dall’altro.

Il governo Meloni si colloca tra le critiche di Confindustria alla pochezza di una manovra che, nel migliore dei casi (dal punto di vista dei padroni, si intende), riversa insufficientemente il costo della crisi sul mondo del lavoro e delle pensioni, e tra quelle dei sindacati che, giustamente, non fanno che sottolineare la completa mancanza di sostegno ai ceti più deboli della popolazione e a tutta una serie di servizi essenziali che vengono pericolosamente lasciati ad un regime di sopravvivenza in un periodo di accresciuta crisi sociale.

Ma il governo nero delle destre non è soltanto un governo del ceto medio. E’ un esecutivo che, proprio perché intende consolidarsi e durare una legislatura, a differenza dei suoi predecessori, non intende sposare soltanto una causa: se deve poggiare su un punto, su un fulcro che gli consenta di parare critiche, colpi e contraccolpi, non ha altra scelta se non quella di far rientrare il ruolo forte dello Stato dentro una cornice economica del tutto privata.

La saldatura qui è tra grande potere finanziario ed industriale e ceto medio fino ad ora protagonista di queste righe. L’illusione del contenimento del prezzo del gas, spacciato come una grande conquista meloniana in Europa, è semmai un retaggio del draghismo e non è detto che sia salvifico per le bollette della gran parte degli italiani che non arrivano a metà mese con salari da fame e pensioni ridotte all’osso.

Proprio queste ultime sono uno specchietto per le allodole clamoroso: non solo si aumentano soltanto le pensioni minime degli ultra settantacinquenni, escludendo in questa maniera una larghissima fascia di percettori degli assegni dell’INPS, ma l’aumento è sganciato dalla rivalutazione vera delle stesse pensioni, da quello che dovrebbe essere un adeguamento al livello inflazionistico che è cresciuto impressionantemente in questi mesi.

E’ proprio dalla rivalutazione che il governo parte (o arriva, a seconda dei punti di vista…) per risparmiare sul sistema pensionistico. In questo modo impedisce all’INPS qualunque calcolo entro gennaio per oltre 4 milioni di pensionati, mentre tagli per 3,7 miliardi di euro da altri scaglioni pensionistici andranno a finanziare il calderone della “flat tax“: operazione ceto medio sempre in corso.

La fisiognomica della destra conservatrice, quindi tutt’altro che erede di una presunta vena sociale dell’incostituzionalissimo MSI (forse l’unica discontinuità storica con il neofascismo della cosiddetta “prima repubblica“), sguscia fuori senza troppi infingimenti.

Sa di dovere molto al ceto medio e di non potere, al contempo, scontentare platealmente la stragrande maggioranza di quei milioni di italiani che oggi, dopo aver “provato” a dare fiducia al PD renziano prima, ai Cinquestelle e alla Lega poi, passando per la parentesi tecnocratica del draghismo, sono disposti a digerire qualche concessione governativa meloniana alle prebende dei privilegiati, a patto di un miglioramento della condizione immediata di estremo disagio davanti alla crisi indecente.

E’ una contraddizione questa che Giorgia Meloni non può affrontare nella sua essenzialità, nel suo nodo più rigido e, al contempo, determinante.

Se decide, come sta decidendo, di tutelare il ceto medio, può attendersi una “sopportabilità” da parte di Confindustria nel merito della manovra che realizza i piani del PNRR e ne acquisisce i fondi destinandoli a progetti che investono soprattutto grandi aziende; ma non può tenere buono allo stesso modo un campo largo di indigenza che, incolpevole (almeno in parte) di illudersi delle potenzialità taumaturgiche della nuova scelta politica, non impiegherà comunque molto tempo a trarre le proprie conclusioni.

Le fortune e le sfortune politiche dei governi di questi ultimi anni, al netto dei condizionamenti esercitati dal mercato, dalla massmediologia che ne veicola gli interessi, sono un insegnamento polifunzionale per chi intende esercitare l’amministrazione del potere, gestire quindi anche il diretto rapporto tra le istituzioni e la popolazione: la composizione sociale del Paese non va mai presa a pretesto, non va mai sganciata dal contesto economico nazionale e internazionale.

Pensare di governare una grande maggioranza di italiani facendo politiche che tutelano una minoranza (pure importante numericamente) di benestanti e ricchi, alla fine logora e indebolisce l’azione del governo stesso, riversandosi ovviamente sull’esaurimento e la sclerotizzazione del consenso elettorale. Che si sposta, che trasmigra altrove. Adesso come adesso, non si saprebbe nemmeno individuare una alternativa verso cui immaginare la transumanza dei milioni di voti del ceto medio, qualora lo scontento nei confronti del governo Meloni si facesse evidente nei prossimi mesi.

L’agone politico e partitico è in subbuglio, vive una incostanza figlia di una destrutturazione evidente dei grandi partiti che si erano affidati alla “leggerezza” degli apparati”, alla “liquidità” dei consensi e alla ristrutturazione dei gruppi dirigenti nel nome eslusivo delle compatibilità con i poteri economici, piuttosto che in rapporto ai corpi intermedi e ai propri elettori ampiamente delusi.

Se il governo Meloni fallirà – e molto dipenderà dal rapporto con una opposizione non solo parlamentare ma anche sociale che si faccia qualitativamente egemone nella società italiana, oltre che quantitativamente – il ceto medio tenterà di affidarsi ad un Bonaccini di turno, ma pure ad una Schlein, e proprio auspicando riforme anche sociali, cambiamenti di rotta e nuove promesse per superare momenti di crisi sempre più acuti.

Senza la domanda della grande massa delle persone che oggi soffrono i contraccolpi della crisi globale e continentale, non ci può essere nessuna speranza di offerta neppure per la piccola e media impresa, per quel cosiddetto “ceto produttivo” che permette anche ai confindustriali di continuare a conservarsi in un rapporto di concorrenzialità con le altre aree di espansione e sviluppo ineguale del Pianeta.

Quello che serve, come alternativa alle destre conservatrici e reazionarie dell’oggi, è una sinistra tutt’altro che accondiscendente verso il mercato, verso il liberismo. Una sinistra che, certo non senza fatica, si faccia largo tra le masse e ne intercetti prima di tutto il disagio: in tutti i sensi. Reale e materiale, percepito e psicologico, ideale, pure culturale. Non va sottovalutato nessun aspetto nella ricerca di una nuova empatia politica e sociale con un popolo che si è smarrito e, in questo smarrimento, ha perso prima di tutto sé stesso.

Dalla finta politica sociale che premia gli interessi del ceto medio ad una politica sociale che rimette al centro il valore della comunità e del pubblico, del lavoro e non solo dell’impresa, il passo è grande. La sfida enorme. Ma non ci si può esimere. E per questo l'”unione popolare” va costruita giorno per giorno. Non sulle macerie di noi stessi, non sull’abbandono di quello che è stato, ma sulla riconsiderazione degli errori, sulla valorizzazione di quello che siamo riusciti a fare in trent’anni di una rifondazione comunista che oggi ha un senso se costruisce un ampio fronte progressista.

Alternativo a qualunque ipotesi di compromesso con chi vuole sostenere anzitutto quel ceto medio che è il trampolino di lancio per nuove politiche di compressione dei salari, delle essenzialità sociali, dei diritti tutti. Ma soprattutto di quelli di più deboli.

MARCO SFERINI

20 dicembre 2022

Foto di Pixabay

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