Ci sono gesti che partono dal simbolico come primo effetto, come proposito e che, invece, riescono ad ottenere ben più di quello che si erano prefissi.
Possono riguardare aspetti minimi della vita comune, a volte pure della nostra singola esistenza. Altre volte invece possono coinvolgere in questo simbolismo espressivo e paradigmatico di una esemplarità che vuole essere, in un certo qual modo, anche pedagogica, sociale e funzionale ad uno scopo civico e civile, un intero popolo.
Ecco, questi gesti che divengono l’emblema di un cambiamento, solitamente, quando riguardano una grande moltitudine di persone, provengono dall’alto, dalle istituzioni, dai delegati a rappresentare la volontà e la sovranità che la Costituzione attribuisce agli italiani tutti. Senza distinzione alcuna.
Una sovranità che non è di ognuno. Ma di tutti. Non esiste sovranità singola nella Repubblica, ma sempre e soltanto una condivisione costante di idee, di proposte, di elaborazioni che sintetizzano poi in atti concreti.
O almeno così dovrebbe essere nel fantastico mondo della correttezza e della giustizia. Civile e sociale.
Sappiamo molto bene che tra il principio e la sua applicazione passano una serie di incongruità e di compromessi che finiscono col ledere il valore del primo e, pertanto, sminuire e svilire la concretezza della seconda. Ma la perseveranza dà spesso buoni frutti, anche laddove sembra che niente possa crescere in controvertenza alle male piante di una attualità di un passato che non passa.
L’Europa dell’oggi è un apparato economico finanziario che poco si impegna nella solidità democratica, perché glielo impedisce la sua natura stessa: quella di consolidare il liberismo continentale in tanti sistemi statali sempre più rinforzati da governi autoritari nel peggiore dei casi (come nel blocco di Visegrad) o da esecutivi dove l’autocrazia diventa la declinazione di una democratura di nuovissimo stampo (come nel caso della Francia macronista).
Difficile, quindi, potersi augurare che dalle istituzioni europee, e da quelle italiane rinnovate il 25 settembre dello scorso anno, possa venire un segnale emblematico che apra la strada ad un capovolgimento delle istanze.
Dal binomio liberismo-stato forte a quello del sociale – stato bene comune intercorre veramente enorme divergenza politica tra le forze che hanno accettato il punto di vista del mercato e del capitalismo e tutte e tutti coloro che invece, non solo rimangono critici nei suoi confronti, ma lo ritengono la causa strutturale da cui derivano tutte le ingiustizie.
L’Italia è completamente inserita in questo contesto europeo, dipendente militarmente dalla NATO e degli Stati Uniti d’America, subordinata ad un imperialismo occidentale nordatlantico.
La saldatura tra economia e militarismo è uno dei capisaldi di quelle pseudo-democrazie che reputiamo tali in virtù della loro discendenza da grandi rivoluzioni del passato. L’Italia non ha nemmeno questo portato storico da esigere come alibi per potersi definire una democrazia salda, solida, imperturbabile e immarcescibile.
La Repubblica può fare ancora conto su quella metà della popolazione che si esime dal preferire forze politiche conservatrici, apertamente di destra tanto liberista quanto postfascista che, provando a giocare la carta del nazionalismo rinnovato, moderno e ritrovato, abbinano il revanchismo dell’armamentario reazionario di mussoliniana e almirantiana memoria alla certezza di garantire alle classi imprenditoriali e finanziarie tutta la stabilità possibile.
Un gesto simbolico per iniziare a decostruire e disarticolare tutta questa tiritera sul patriottismo dei postfascisti e sulla necessità di un governo sempre più forte associato ad un Presidente della Repubblica con funzioni simili a quelle di un Macron o di un Biden (fatte salve le debite differenze tra paese e paese, tra storia e storia…) sarebbe stato certamente utile e avrebbe potuto regalare alla Repubblica un ritorno alla sua essenza primordiale: resistente, antifascista, pacifica e non ostile agli altri popoli nel nome dell’italianità o della difesa sacrale dei confini.
Un gesto simbolico ma con una ricaduta assolutamente fattuale. Abolire la parata militare del 2 giugno o, quanto meno, ridimensionarla e affiancare ad essa una parata popolare, civile, sociale, sindacale, culturale ed anche artistica.
Fare della festa della nostra Repubblica un ritratto della Nazione a tutto tondo. Non solo l’ambito militare ma tutte le rappresentanze di una intera comunità: da ogni parte del Paese. Facendo quindi mostra delle energie complessive che l’Italia ha a disposizione e che ogni giorno mandano avanti quella linea di prossimità che è il confine tra i problemi di tutti e la vita di ciascuno.
Senza distinzione di sorta: l’impegno per la pace, per il disarmo, per la rifondazione della Repubblica sul dettame difensivo che le attribuisce la Costituzione non può essere tradotto nella dimostrazione della forza muscolare, nell’esibizione militare come unico parametro interpretativo dell’energia del Paese.
Ripensare la parata del 2 giugno sarebbe un gesto molto importante: simbolico, certo.
Ma, come è abbastanza evidente ed oggettivo, avrebbe nell’immaginario comune un riflesso condizionato alla considerazione dell’Italia come comunità formata anzitutto sul civilismo, sulla civicità, su una laicità democratica che può prescindere dalle armi e che può costruirsi e ricostruirsi continuamente nell’interazione sociale, nella condivisione degli spazi, delle esperienze e delle differenze. Oltre il comando, oltre l’obbedienza cieca, ed invece nello spirito di solidarietà e di azzeramento dei gradi.
La migliore parata che possiamo fare di noi stessi, come italiane ed italiani, è quella dell’impegno quotidiano nel rendere migliore il Paese con quel paese che gli sta dentro e che non si percepisce solo come segnato dai confini e dalle frontiere, dalle dogane e dagli obblighi di legge che delimitano i perimetri dell’uguaglianza e dell’umanità.
La migliore parata di ogni giorno la si vede, purtroppo, solo nelle disgrazie, quando una sciagura investe i nostri territori, quando ci unisce un amore di patria che viene a galla a posteriori, dopo che abbiamo fatto tutto il possibile – anche con il voto – per fare in modo di devastare la natura, l’ecosistema della Penisola, la sua economia, i suoi beni comuni e la sua struttura sociale e produttiva vera: quella del mondo del lavoro.
Ma questo, a ben vedere, riguarda molti altri paesi, molti altri popoli. E’ una caratteristica quasi endemica di un sistema economico che condiziona a tal punto le nostre vite da renderle dipendenti esclusivamente dall’interesse privato, subordinandovi quello pubblico e facendone una variabile del mercato, dell’alta finanza, dei movimenti di borsa e degli scambi globali.
La parata del 2 giugno, in tutto questo, può sembrare appunto un fattore meramente simbolico.
Eppure io sono convinto che i simboli contino molto, che siano intrinseci al nostro modo di comunicare, di capire, di trasmettere i valori. Ed è per questo che, se un domani, se il prossimo anno, la parata del 2 giugno fosse non solo militare ma anche molto, molto civile, per la Repubblica sarebbe un segno di distinzione da una retrocessione culturale, civile e morale di gran peso oggi.
Portata avanti da un governo che stravolge tutto quello che ha un tratto di comunità, di uguaglianza, di pace e di solidarietà.
Un governo che è quanto di più antirepubblicano vi sia oggi. Un governo che manomette le garanzie fondamentali del vivere insieme, del vivere in particolare senza pensare a superiorità o inferiorità dettate da un’antietica, da un antistato, da una negazione della democrazia che non hanno abbandonato le forze della maggioranza e che ne sono il substrato infimo e pericoloso.
Lavorando per tempi migliori, buona festa della Repubblica a tutte e a tutti.
MARCO SFERINI
2 giugno 2023
Anno 77esimo della Repubblica
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