C’era una volta un essere che gridava, che tendeva la mano al circostante, che prendeva un bastone e batteva e segnava il terreno. Potrebbe iniziare così la favola dell’umano secondo il filosofo Carlo Sini, come la storia di un essere che si proietta continuamente fuori di sé.
Ma se l’essere umano è tale perché è sempre in relazione con l’esterno, allora diventa un problema vederlo come un individuo separato. Anche lo zoologo Carlo Alberto Redi, dal punto di vista della biologia, per l’essere umano esprime un concetto analogo a quello raccontato dal mito di Sini. Redi parla di «simbiosi», di «corpo esosomatico», di «con-dividuo». Nel dialogo fra Sini e Redi, raccolto nel libro Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano? (Jaca Book, pp. 106, euro 16), va in scena qualcosa di poco consueto oggi e cioè la possibilità di un modo comune, tra filosofia e scienza, di studiare la vita umana.
Sia per Redi che per Sini essenziale è «il discorso sulla relazione»: il doppio senso attraverso il quale l’essere vivente non è solo il suo corpo e non è solo quello che geneticamente gli è stato tramandato. Per il filosofo e lo scienziato, diventa vita nel senso biologico del termine, anche ciò che gli esseri si trasmettono per via sociale. Non si può scindere la biologia dalla società, la dotazione naturale dalla protesi tecnica.
Secondo i due studiosi, ontogenesi e filogenesi si intrecciano in una trasmissione orizzontale e verticale che tuttavia – precisa Redi – non va intesa come un’ereditarietà lamarckiana, ma pur sempre darwiniana. Ciò perché l’impronta genetica e quella della storia personale su un’altra storia personale non sono determinate una volta per sempre. In altre parole, trasmettere caratteri ereditari è possibile nella misura in cui si concepisce l’ereditarietà come reversibile, come qualcosa che la biologia e i modi culturali e sociali possono nuovamente modificare.
La relazione con i nostri antenati, con gli altri e l’ambiente che ci circonda è possibile ed è reciprocamente influente proprio perché essa non è già un destino completamente segnato. Ciò è vero sia dal punto di vista biologico, ma anche, aggiunge Sini, dal punto di vista di come concettualizziamo culturalmente in un certo periodo storico, l’essere umano. Se la biologia non ci predestina e non ci individua una volta per sempre, neanche il linguaggio, sottolinea Sini, può farlo. Nominare gli esseri umani e la vita in un certo modo non è dato una volta per tutte. Il linguaggio, la cultura e la società sono essi stessi influenzati dalla biologia e dalla conoscenza scientifica. A propria volta anche l’influenza del linguaggio è reversibile, al pari dell’ereditarietà dei caratteri genetici.
Sini e Redi sembrano suggerire che se siamo contemporaneamente anche ciò che diventiamo con gli altri e nell’ambiente, allora vuol dire che l’animalità e l’umanità di un corpo sono l’apertura di una domanda la cui risposta non potrà mai isolare un puro dato biologico dissociato da un contesto, da una storia, da un insieme, da una comunità. Prima ancora della risposta, la domanda stessa sul corpo umano sembra poter avere senso solo se viene posta già all’interno di una forma politica.
Dal dialogo fra gli autori emerge anche un’altra questione notevole, e in una certa misura contro-intuitiva rispetto a come si è tradizionalmente sviluppata soprattutto in seno alla fenomenologia e alle concezioni olistiche. E cioè che forse ogni relazione, e non solo quella tra biologia e cultura, è propriamente tale perché non comporta, nel processo e nell’esito finale, un’identità. La relazione e con essa la ripetizione sono sempre anche, soprattutto, differenza.
MARCO PACIONI
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