La guerra per l’Ucraina è, a meno di clamorosi capovolgimenti delle forze in campo, sostanzialmente perduta. Lo è almeno quella per la cacciata dei russi dai territori occupati. Lo è quella per tentare quanto meno di riprendersi il Donbass e la Crimea. Lo è quella della tentata destabilizzazione dell’economia del gigante dell’Est attraverso i tanti pacchetti di sanzioni che, a detta di von der Leyen, Stoltenberg prima e Rutte ora, dovevano piegare da un lato le potenzialità di Mosca e indurla a ripensare anche l’impegno bellico.
L’Occidente ha palesemente sottovalutato tutta una grande parte del pianeta che ruota attorno ad una idea multipolare in cui essere protagonista al posto dell’impero americano. I BRICS, ma anche i bilateralismi tra Putin e altri autocrati del mondo, sono la manifestazione più evidente e oggettiva non di una alternativa al liberismo e al capitalismo, che è il primo responsabile delle guerre sparse per i continenti; semmai sono un altro modo di intendere la declinazione moderna di una economia di rapina nei confronti dei popoli per garantire le alte sfere di un potere finanziario in mano di pochi e di un potere politico che se ne avvantaggia.
Dunque, prendere in considerazione il fatto che la necessità della pace significa operare un vero e proprio cambiamento di fase, introducendo elementi di ovvia rottura con il regime di guerra permanente cui stiamo assistendo da alcuni decenni, dovrebbe essere il tema di un recupero del novecentesco internazionalismo, oggi ancora di più attuale per andare oltre tanto l’imperialismo a stelle e strisce che vellica l’unipolarismo alla vecchia maniera, quanto la novità di una pluralità di contendenti mondiali che non aspettano altro di concorrenzializzare quel che resta delle risorse globali.
La guerra in Ucraina è – caso mai fosse sfuggito a qualcuno – il banco di prova di una tensione internazionale tra questi due blocchi, con tutta una serie di differenziazioni in quello formato da Russia, Cina, India, Corea del Nord, trasversalismi iraniani e mimetizzazioni neo-ottomane che, ancora più oggi, guardano a vecchi sogni di gloria nel Medio Oriente dati i recenti inviluppi della guerra civile siriana. Zelens’kyj parla a “Le Parisien“, dialoga con i lettori e le lettrici e le sue risposte rappresentano un cambio di passo nella narrazione anche politica della guerra.
Per la prima volta la retorica sulla totale riconquista dei territori persi, a far data almeno dal 2014, non regge più e lascia il passo all’ammissione della realpolitik che subentra nel momento in cui ti rendi perfettamente conto che l’America trumpiana a gennaio potrebbe mollare gli ormeggi e lasciarti da solo con un’Europa divisa a fronteggiare un nemico che ingrossa le sue fila al fronte, avanza ogni giorno nel Donbass che rimane da conquistare e che il tuo paese è esangue, esausto, con oltre centomila disertori da processare, le casse dello Stato vuote e una prospettiva quindi disastrosa davanti.
Al netto delle ridondanti, esagerate dichiarazioni di Mark Rutte, sul continuare la guerra ad ogni costo con i mezzi delle nazioni europee e, quindi, aumentando – come vorrebbe anche Enrico Letta – al 3% le risorse dei PIL nazionali da destinare ad armamenti e fondi per la NATO, si deve fare i conti con l’esaurirsi non solo delle scorte di armamenti pesanti negli arsenali, ma pure dell’impatto che ha il conflitto sul doppio fronte europeo: gli americani percepiscono la guerra in Ucraina come qualcosa di molto più lontano da loro rispetto, ad esempio, a quanto accade in Israele, Palestina e Siria.
Ma europei, ucraini e russi risentono direttamente degli effetti di una economia bellicista che mette in fila tutta una serie di sacrifici chiesti, per la maggior parte, alle popolazioni interessate con tagli pesanti allo stato sociale. Rutte è stato estremamente esplicito al riguardo, senza troppi giri di parole: bisogna finanziare ancora l’invio di armamenti e uomini a Kiev e per farlo serve intervenire sulla spesa dei singoli Stati per pensioni, sanità, servizi, scuola. L’imperialismo occidentali, la linea nordatlantica non si maschera dietro a nulla: non è ne ha del resto più alcun bisogno.
Tanti fingono di non sapere che la guerra è della Russia contro la NATO e viceversa, per stabilire nuovi disequilibri in uno scenario globale in cui il riposizionamento delle proprie pedine sulla mappa del risiko attuale vale la vittoria nella partita dell’egemonia sul mercato mondiale di molte risorse naturali di cui il Donbass (ma non solo) pullulano. Non è semplicemente una questione di mero nazionalismo, come Putin vorrebbe far apparire, ed al cui gioco stanno anche le potenze occidentali. Dietro ogni guerra c’è sempre una motivazione che riguarda, poco o tanto, un punto di difesa di privilegi economici.
L’espansionismo che la NATO cerca verso est è un tentativo di limitare quello russo verso ovest. La linea dello scontro è l’Ucraina. Ma Zelens’kyj, invece di prodigarsi per una soluzione di compromesso, preso atto di stare tra due fuochi, ha scelto una parte contro l’altra, per contrarietà storico-politico-cultural-etnica, e ha mandato, con l’aiuto dell’Alleanza atlantica, a morire centinaia di migliaia di propri connazionali in una guerra che poteva essere fermata cedendo il Donbass filorusso a Mosca e provando, così, a togliere molti alibi a Putin nel proseguire l’invasione.
Soprattutto dopo il fallimento della presa di Kiev nei primissimi giorni dell’inizio della cosiddetta “operazione speciale“. Del senno di poi son piene le fosse, verissimo. Ma anche i cadaveri le riempiono… Dall’una e dall’altra parte. La NATO, cinicamente, fa il suo mestiere di alleanza militare, di braccio armato internazionale al servizio degli Stati Uniti: la nuova presidenza trumpiana, paradossalmente, potrebbe rivelarsi meno guerrafondaia di quella democratica.
Non che non lo sia in pratica, ma in questo caso specifico, viste le comunanze di idee e di propensioni politiche tra il magnate e Putin, si potrebbe aprire uno spiraglio, almeno, di un “cessate il fuoco” dal carattere permanente. D’altro canto, la caduta di Bashar al-Assad dal trono di Damasco, impone allo zar di riconsiderare la strategia russa nel Medio Oriente e, non si sa bene se provvidenzialmente, gli consente di dirottare forze armate di tutto punto, specializzate nella guerra al terrorismo, sul consolidato e incedente fronte ucraino.
Se, quindi, da un lato Mosca rischia di perdere le sue postazioni nella Siria passata in mano allo jihadismo di al-Julani, mentre gli americani sembrano abbandonare al loro destino i curdi che si trovano in mezzo alla tempesta di fuoco turca da nord ed est e l’ostilità delle truppe dell’HTS da sud e da ovest, dall’altro lato questo indebolimento potrebbe significare un rafforzamento nei prossimi mesi delle postazioni tanto meridionali quanto di quelle attorno alla regione del Kursk sotto attacco e in parzialissimo controllo ucraino.
Zelens’kyj ha parlato a Putin, a Trump e anche all’Europa, per dire che la resistenza si fa sempre più flebile e l’Ucraina oggi è un paese in ginocchio. Diverso il clima a Mosca: la popolazione – ci dicono le cronache – comincia ad essere stanca di quasi tre anni di guerra. Ma le ripercussioni economico-sociali nella Federazione russa si fanno sentire obiettivamente di meno. Le basi militari di stanza in Siria, fatte tutte le ipotesi del caso, sono e restano un presidio russo che affaccia direttamente sul Mediterraneo e, quindi, rimangono un avamposto di controllo della zona in questione.
Riesce difficile immaginare che Putin le faccia evacuare in quattro e quattro otto. D’altro canto, la continuata presenza dell’orso russo in terra ormai jihadista, potrebbe esporre Mosca a ripercussioni terroristiche, ad attacchi che si collegherebbero ad un mai interrotto conflitto con le regioni caucasiche che hanno lottato per decenni nel nome del separatismo o dell’autonomia dal regime centrale. Si tratta di un’altra regione in cui gasdotti, petrolio e altre materie di primaria importanza pullulano nel terreno sottostante, divenendo così il vero obiettivo del mantenimento delle posizioni da un lato, dei confini intatti e, come nel caso del Donbass, la modificazione di questi sulle mappe.
Non di meno, ovviamente, il vento di guerra si fa sentire sul quadrante asiatico: la triangolazione con il conflitto in Ucraina e quello in Medio Oriente qui prende piede se si mettono in fila tutti i vettori dell’espansionismo imperialista della Cina da un lato e degli Stati Uniti dall’altro. Taiwan è un po’ l’immagine ormai iconica di una guerra non dichiarata che vede Giappone, Australia e India stringere patti in funzione anti-cinese; i tentativi di penetrazione di Pechino in Oceania verso la costa occidentale americana e, più a nord, la riesplosione delle tensioni tra le due Coree.
La rivista di Lucio Caracciolo, “Limes“, ha definito tutto ciò con un binomio che esprime molto accuratamente ciò cui stiamo tristemente assistendo in questi decenni: dalla Grande Guerra del 1914-1918, alla “Guerra Grande” che si delinea mettendo insieme i pezzi di un puzzle impazzito di un mondo sregolato, confuso dagli interessi capitalistici, alterato dagli squilibri imperialisti e da una finanziarizzazione esasperata dell’economia.
Proprio mentre il presidente ucraino mostra segni di evidentissimo cedimento strutturale, inducendo quindi tutte e tutti a considerare le incontrovertibili difficoltà del suo paese a fronteggiare un altro anno di guerra, i governi europei, da quello italiano a quello francese, da quello tedesco a quello inglese (che, ricordiamolo, non fa parte del consesso della UE) si affannano a mettere in cantiere nuove spedizioni di carri armati, nuove cessioni (tutt’altro che gratuite) di aerei. Addirittura, il Bundestag dà il via libera all’acquisto di qualche sottomarino e di qualche fregata in più per la marina tedesca.
Caso mai alla Russia venisse in mente di attaccare l’Europa nel suo cuore strategico, non ci si vuol mica far trovare impreparati… Intanto le crisi interne portano Scholz alle dimissioni e la Germania al voto a febbraio. Dettagli? Non proprio. Ma per il momento passano per l’essere tali. I nodi tornano sempre al pettine. Anche quelli che sembravano più piccoli. A meno di non reciderli con qualche taglio di forbice e, domani, fare finta che non sia mai attorcigliato nulla nella caotica politica di un’Europa pressoché vuota di valori e socialità, piena di contanti e di armi.
MARCO SFERINI
19 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria