La foschia dei colpi di Stato
Ogni tentativo di colpo di Stato, se non raggiunge i suoi obiettivi, quindi capovolgere un regime, un sistema di governo legittimo con un altro certamente meno legittimo, lascia una foschia abbastanza densa sugli attimi convulsi che si vivono nelle ventiquattro ore in cui tutto dovrebbe avvenire e concretizzarsi.
Più che giustamente si è osservato che è questo il lasso di tempo necessario, ma non superabile, affinché il sovvertimento possa riscontare il suo successo con il rovesciamento degli avversari al potere e, quindi, possa dirsi completato con successo. Trascorso un giorno dall’inizio delle azioni, ogni minuto che vi si aggiunge è un peso sul piatto della bilancia che segna il fallimento come probabilità sempre più certa per i golpisti.
E’ quello che è accaduto anche in Russia proprio ieri, 24 giugno 2023: la rivolta di Evgenij Viktorovič Prigožin, capo della milizia privata “Wagner“, è sembrata nel corso della mattinata assurgere ai contorni di una vera e propria guerra civile in potenza. Le voci che si spargono hanno l’effetto di un venticello calunnioso, quasi sempre portatore di esagerazioni volute e di finzioni che hanno il chiaro aspetto del bluff, ma funzionano come elemento scardinante, per convincere i recalcitranti, per chiamare a raccolta, in questo caso, l’esercito russo.
Un esercito il cui stato maggiore veniva accusato dal mercenario ribelle di essere inefficiente, incapace, addirittura ostile alla sua brigata d’assalto, operativissima in una Bachmut in cui la parola d’ordine di Prigožin è stata: «Non fate prigionieri». Un esercito russo che probabilmente ha scansato la colonna lunghissima di autoblindo e mezzi che si dirigeva verso Mosca sull’autostrada che parte dal profondo sud di Rostov, che ha evitato di combattere ma che, allo stesso tempo, non si è unito ai ribelli.
Quanto a mezzogiorno circa Putin parla, definendo traditori tutti coloro che prendono parte al tentativo eversivo, è sufficientemente chiaro che non si tratta soltanto di un pugno di soldati mercenari incazzati perché, a suo dire (e smentito da Mosca), il loro capo dichiara che Gerasimov gli ha bombardato il quartier generale al fronte ucraino. C’è di più. Molto di più.
E qui la foschia si fa nebbia fitta, perché possiamo discutere di quanto accaduto facendo delle ipotesi: iniziando proprio dalle intenzioni di Prigožin. Voleva solamente protestare, seppure in modo eclatante davanti a tutta la Russia e al mondo, affinché cadessero le teste dei comandanti regolari e del ministro della difesa, oppure aveva in mente piani più ambizioni, tipo quello di aprire il varco a sé stesso per candidarsi alla successione nei confronti dello stesso Putin?
Non lo sapremo probabilmente mai, perché i fatti non arrivano e non possono arrivare fin dentro la mente di Prigožin e nemmeno dei suoi uomini. Ma ciò che risulta dai comportamenti è che quella “marcia della giustizia” (così l’ha definita lo stesso capo dei mercenari) ha transitato per quasi mille chilometri quasi indisturbata. Attaccata soltanto a metà strada, ma senza essere rallentata e tanto meno fermata.
Birra e salsicce
Prigožin viene ritratto dai telegionali e dai servizi internettiani nel suo percorso di vita più e più volte: pochi lo conoscono al di fuori del mondo russo. Così si prova a spiegare da dove arriva questo sessantaduenne che con l’elmetto in testa somiglia un po’ ad un Pozzetto imbolsito e precocemente invecchiato se si rivedono pecorecci film come quel “Sturmtruppen” che non fece certo onore ai capolavori di Bonvi.
Il capo della Wagner inizia la sua fortuna vendendo hot-dog, dopo alcune traversie con la giustizia: cosa di un certo conto. Una condanna a dodici anni di carcere con l’accusa di rapina, frode e coinvolgimento di adolescenti nella prostituzione. Uscito di prigione, ristruttura una barca mezza arrugginita che staziona sul fiume Vjatka e apre un locale ispirato ai ristoranti sulla Senna. Lo chiama “New Island“.
Da qui avvia una catena di ristoranti anche di lusso e, proprio in uno di questi, nella vecchia Leningrado diventata ormai San Pietroburgo, incontra il suo futuro mentore: Putin.
L’amicizia si salda, lui rifornisce di pasti l’esercito, organizza ricevimenti pantagruelici ed anfitrionici al Cremlino e poi tenta altre avventure danarose: tra queste l’apertura, dieci anni fa, dell'”Internet Research Agency“. Una specie di fabbrica di false informazioni, trollante sui social, nel mirino dell’FBI con l’accusa di aver destabilizzato la campagna elettorale presidenziale che vedeva contrapposti Trump e Clinton.
Poi, avventura dopo avventura, la brigata Wagner. Fondata (presumibilmente) da Dmitrij Valer’evič Utkin, che associava (impropriamente) Richard Wagner al nazismo, di cui era simpatizzante, e ne prese il cognome come alterego bellico, la truppa mercenaria assume i connotati di un vero e proprio esercito privato. Quel tanto da permettere a Putin di scostarsene in modo ufficiale, e impiegarla poi laddove avvampano le peggiori guerre interetniche e i conflitti indipendentisti che determinano nuovi status politici regionali.
Tra questi proprio la guerra in Donbass che inizia nel 2014. Poi quelle in Libia, in Siria, in Madagascar, nel Sudan. Dove c’è spargimento violento di sangue, la Wagner c’è. Prigožin, dopo averla acquistata, la fa foraggiare dal governo russo e la rende un elemento di primordine in quanto a disciplina, intransigenza, ferocia. Fino ad oggi. Fino alla conquista di Bachmut, fino alla “marcia della giustizia” verso Mosca.
Questo è Prigožin: un imprenditore fortunato e certamente spregiudicato, che si è acclimatato nelle stanze del potere e che ha tratto da Putin praticamente ogni sua legittimazione. Salvo rivoltarglisi contro quando le guerre, come quella in Ucraina, si impantanano, rallentano e fanno vacillare i regimi. Fatte queste premesse biografiche, risulterà abbastanza comprensibile come non è impossibile escludere la sete di potere del capo della Wagner, la sua probabile voglia di farsi largo nella cerchia dei papabili per un posto di primordine nel dopo-Putin.
La minaccia a 200 km
Ma forse l’azzardo è stato eccessivo, i calcoli sono stati sbagliati e la sopravvalutazione di sé stesso e della propria armata privata anche.
Nel primo pomeriggio da Mosca fanno sapere che, a circa cento chilometri dal perimetro esterno della capitale, si stanno scavando fossati, delle specie di trincee, interrompendo le vie di comunicazione, addirittura spostando dei ponti per intero (il che fa ricordare Gino Cervi quando stentoreamente proclama: «Ma come non si può spostare un pezzo di muro quando in Russia spostano come ridere i palazzi di cinque piani?»). La Wagner in marcia inizia a preoccupare seriamente.
Le voci continuano a rincorrersi. Gli ucraini lasciano intendere che Putin sta nascosto da qualche parte in un bunker. Altri lo danno in volo verso San Pietroburgo. Altri ancora parlano di due sosia che si alternerebbero nelle comparse pubbliche. Un po’ come gli oltre dieci che avrebbe avuto Saddam Hussein secondo l’intelligence americana all’epoca delle guerre del Golfo. Poi il governo sgombera il campo dalla foschia: il presidente è al Cremlino e segue gli sviluppi del colpo di Stato.
Medvedev lancia i suoi anatemi, Prigožin replica a stretto giro di posta e fino a che non arrivano le prime ore della sera tutto pare precipitare proprio in una guerra civile, in un tentativo di assedio della capitale da parte della brigata delle tenebre, di circa venticinquemila mercenari pronti a tutto pur di sostenere il loro condottiero. Poi accade qualcosa di inaspettato. Su incarico di Putin, il presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka apre una mediazione con l’ex “cuoco” del Cremlino.
E’ la svolta. Almeno per il momento. Qui la foschia torna a farsi densa, perché in merito all’accordo raggiunto (se accordo è stato…) si sa ben poco. Quello che accade è però questo: Prigožin fa circolare un audio in cui dichiara che il convoglio della Wagner fa dietro front, torna alle sue postazioni di guerra in Ucraina e smobilita anche l’occupazione della base dello stato maggiore russo a Rostov sul Don.
Della sua sorte personale si saprà, qualche ora dopo, che verrà portato in Bielorussia sotto la protezione di Lukašėnka: che, praticamente, è un po’ come dire “prigioniero di Putin“… I giornali e le televisioni interpretano le parole: “andrà” o “sarà portato” a Minsk? E poi ancora, riguardo il decreto di arresto emanato contro il capo della Wagner e contro chiunque abbia partecipato alla sommossa, ci si interroga su: “archiviazione” o “sospensione“. Non sono questioni di lana caprina, anche se i giochi sembrano fatti.
Il giorno dopo
Prigožin è in mano alla Russia, il suo tentativo di colpo di Stato si è arenato a duecento chilometri dalla capitale. Putin è al suo posto, spaventato, ammaccato nell’immaginario internazionale, ma è lì. E così rimangono al loro posto Gerasimov e Šojgu. Gli occidentali si sono parlati al telefono per tutta la convulsa giornata. Escludendo l’Italia, marcando in distinguo rispetto alla gestione di Draghi. Mostrano ufficialmente stupore, incredulità. Mentre la Cina, più realisticamente, si dice profondamente preoccupata.
Il New York Times svelerà a distanza di nemmeno dodici ore che Washington sapeva delle intenzioni di Prigožin già da giorni; quindi nessun credito è possibile dare alle parole delle dichiarazioni ufficiali che vengono dalla Casa Bianca. La destabilizzazione delle Russia avrebbe creato dei problemi ma, probabilmente, avrebbe aiutato quella Santa Barbara dell’Ucraina, avamposto della NATO, cuneo dell’atlantismo nordamericano nel cuore dell’Est slavo e panrusso.
Persino alcuni giornali di destra oggi titolano a chiare lettere che, tolto di mezzo di Putin, non ne sarebbe venuto nulla di meglio, ma solo il peggio. Prigožin è, quasi fisiognomicamente, l’immagine della spietatezza e del nazionalismo a tutto tondo, ben oltre i sogni zaristici dell’attuale inquilino del Cremlino e, sicuramente, altrettanto ben oltre l’idea euro-asiatica di riformulazione di una sorta di impero russo molto lontano dai contorni storici, politici ed ideali dell’URSS.
Del resto, Putin, per sventare la minaccia rappresentata dalla ribellione della Wagner, evoca lo spettro della guerra civile del 1917 e coglie l’occasione per rimarcare le sue distanze dall’eredità sovietica.
Per lui il bolscevismo è stato nefando, ha distrutto la solidità di una Russia che stava vincendo un conflitto mondiale e ha dato vita, su direttiva di Lenin, a quell’indipendenza ucraina che ha separato una parte della madrepatria da sé stessa. Ma solo nella tragedia di una Russia sulla soglia della guerra civile si può immaginare di spingere il revisionismo a tal punto da paragonare il capo dei bolscevichi al “cuoco” del Cremlino che tenta l’assalto alla capitale.
Putin non è Nicola II Romanov e Prigožin non è Lenin. Molto semplicemente. E il tentativo di prendere Mosca fallisce perché l’esercito russo rimane tutto sommato compatto dietro i suoi comandanti. Ad iniziare dal fronte ucraino. Senza questo dato certo, è possibile che l’avanzata della brigata delle tenebre avrebbe visto ingrossarsi le sue fila ed arrivare alle porte della capitale con ben più di venticinquemila uomini.
Invece il fronte interno della catena di comando, dopo qualche sbandamento iniziale, tiene e così pure la linea dei mille chilometri che va dal Donbass a Cherson.
Il futuro impenetrabile
La corsa all’analisi su chi abbia vinto e chi abbia perso è abbastanza inutile. Perdono tutti, ma proprio tutti.
Perde Putin, che vede indebolito il suo potere, circoscritto ad una fragilità tale da essere messo in forse dalla ribellione di una brigata mercenaria; perde Prigožin che finisce esiliato in Bielorussia, con una Wagner che viene inquadrata nell’esercito regolare solo per quegli elementi che non hanno partecipato all’insurrezione; perde il governo di Zelens’kyj che aveva puntato su un suo acerrimo nemico per far fuori l’altro nemico; perde l’Occidente si mette nella condizione del “wait and see“, pur sapendo bene cosa stava per avvenire da giorni e giorni.
Sembrano uscirne con qualche tinta meno fosca soltanto tre personaggi: il presidente bielorusso, quello turco e il leader delle truppe ceceni fedeli a Putin, Ramzán Kadýrov. I primi per le trattative intavolate e i sostegni prontamente espressi al leader del Cremlino; l’ultimo per la sua piaggeria, per la velocità di reazione con cui si è offerto di marciare su Rostov e mettere giudizio ai guerriglieri della Wagner.
Il resto è cronaca di un’Europa silente, di una Cina che si guarda ai lati da possibili manovre a tenaglia da parte dell’occidente, di una ridefinizione dei ruoli interni alla Russia che si apre ora con prospettive tutt’altro che facili da immaginare. La guerra, intanto, continua e la controffensiva ucraina non decolla.
Ma la giustificazione ossessiva dell’invio di armi da parte dei governi occidentali viene sottolineata ancora una volta dai commentatori televisivi in questo modo: se non avessimo sostenuto la resistenza ucraina, oggi quel fronte sarebbe probabilmente crollato e il panrussismo di un Prigožin avrebbe avuto certamente la meglio rispetto persino all’interventismo putiniano.
C’è solo un piccolo, ininfluente punto critico in questa ricostruzione delle giustificazioni presuntivamente etiche di un sostegno armato al governo di Kiev: la resistenza. Non c’è nessuna resistenza ucraina. Solo una guerra imperialista fra due blocchi opposti che si fronteggiano su quel terreno, a scapito tragico della popolazione che viene cinicamente messa in mezzo, massacrata e utilizzata per gli scopi propagandistici.
Non è una resistenza all’invasore, ma un salto di qualità di una guerra per il dominio di una regione che, dal 2014, l’occidente vuole accaparrarsi fino al limite dei confini con la Russia. L’avanzata della NATO è lì a dimostrarlo. Dopo l’affaire Prigožin, tutto si complica ulteriormente e Putin dovrà cercarsi, indubbiamente, un altro cuoco…
MARCO SFERINI
25 giugno 2023
foto: screenshot tv