La proprietà privata, origine dell’umana inumanità

Si domandava Jean-Jacques Rousseau come mai fosse stato possibile, nei secoli dei secoli, arrivare ad una tale perversione immorale, antisociale, disumana da parte dell’umanità medesima. E’ un domanda che,...
Jean-Jacques Rousseau

Si domandava Jean-Jacques Rousseau come mai fosse stato possibile, nei secoli dei secoli, arrivare ad una tale perversione immorale, antisociale, disumana da parte dell’umanità medesima. E’ un domanda che, seppure inevasa, non ha potuto non assumere i caratteri della retoricità, immergendosi in una banalizzazione che, ad essere completamente onesti, non le toccherebbe nemmeno, visto che i presupposti su cui si regge andrebbero indagati a fondo.

La speranza, però, di arrivare ad una soluzione del dilemma è piuttosto aleatoria. Galleggia qua e là nell’aria, sorvola le menti, penetra in qualche empatico muscolo cardiaco, ma difficilmente si può ritenere di giungere ad una risposta. Ad una soltanto. La complessità dell’esistenza e dei rapporti che essa genera è tanta e così consistentemente coriacea da risultare spesso impenetrabile o, comunque, inaccessibile ad una critica che dal molteplice voglia semplificare fino all’unico motivo.

Se Hobbes e Locke avevano tentato di cimentarsi in questa ardita impresa, provando ad identificare l’essenza umana e a circoscriverla entro i termini della feralità animalesca che – oggettivamente – le è propria (essendo noi umani degli animali in tutto e per tutto) e che sarebbe stata all’origine dell’istintiva propensione alla dominazione, alla sopraffazione e al nuocersi gli uni contro gli altri, i prodromi primitivisti erano parsi a Rousseau negare un vero “stato di natura” anche in forma soltanto ipotetica.

Il pensatore ginevrino, infatti, non è convinto che sia mai esistito un punto di inizio in cui gli esseri umani abbiano avuto le caratteristiche primigenie tali da raffrontare il loro vero essere con la mutazione genetica delle caratteristiche sociali, civili e morali di una umanità altra da sé stessa, tendente ad un annichilimento vicendevole e, quindi, negatrice in prima istanza della sua primordiale, straordinaria eccentricità nei confronti del resto dell’Universo.

Voltaire deriderà benevolmente (almeno così è stato tramandato dalla storia della filosofia) il tentativo di Rousseau di fare dell’uomo primitivo un essere sociale, con un convincimento morale ancestrale, quasi innato, derivato da una condivisione dell’affetto, dell’amore, della semplificazione tutt’altro che fuorviante dell’intimità di ciascuno in ragione dell’armonia di intere comunità.

Se ci rifacciamo per un attimo alla nostra quotidianità, al mondo attuale, a quello che ogni giorno possiamo leggere, vedere, ascoltare sui tanti conflitti che vanno avanti da decenni o che sono improvvisamente scoppiati dopo lunghi tempi di gestazione delle ostilità (a volte non meno cruenti delle guerre stesse che ne seguono), riesce difficilissimo pensare ad una ragione capace di dominare le passioni, affidandosi ad una critica storica su base esclusivamente morale.

Rispetto a Hobbes e Locke, Rousseau aggiunge un argomento molto interessante nel suo “Discorso sull’origine della diseguaglianza tra gli uomini“. E questo argomento riguarda la proprietà privata.

E’ già capitato di imbattersi molto opportunamente negli scritti di Ernst Mandel che ci hanno aiutato a comprendere, naturalmente partendo dal punto di vista marxista, come l’inizio della divisione in classi della società si possa collocale nel momento in cui il sovraprodotto sociale ha fatto la sua comparsa sulla scena della grande tragedia mondiale.

Verrebbe da dire che si tratta di un particolare ascrivibile allo sviluppo capitalistico come modernamente lo intendiamo; invece dovremmo pensare a questa origine delle diseguaglianze come ad un fenomeno molto più lontano nel tempo, quindi riferibile a quello che Rousseau, in un certo qual modo, intuisce essere la linea di demarcazione tra il prima e il dopo dell’inizio della “società“.

Ed è parecchio interessante l’utilizzo di questo termine da parte del filosofo francese, perché ci permette di distinguere tra animalità presociale dell’uomo primitivo e umanità antisociale dell’uomo moderno.

Se posta in questi termini – senza dubbio filosofeggiabili e quindi del tutto opinabili – l’animalità umana (che oggi viene giustamente presa in carico dall’antispecismo come antesignana di una naturale uguaglianza in diritti per tutti gli esseri viventi) è la condizione per la preservazione di un vero stato sociale, civile e morale tanto di noi sapiens quanto del resto dell’essenza senziente.

La critica di Rousseau alla proprietà privata, come carattere perversivo dell’umanità nell’umanità che le dovrebbe essere congenita e congeniale quindi al tempo stesso, non è pertanto solo un punto di obiezione morale.

Anche se non arriva ai dislivelli della contestazione proudhoniana, né tanto meno ai livelli dello scientismo marxiano, le si può riconoscere di aver aperto la strada ad una riconsiderazione dei rapporti sociali e, quindi, di aver avviato un dibattito plurisecolare sul classismo, sulla divaricazione tra povertà e ricchezza, miseria e lusso, debolezza delle masse e forza dei privilegiati.

Scrive Rousseau: «Il primo che, avendo recintato un terreno, disse: “Questo è mio!“, e trovò persone così ingenue da crederlo, fu il vero fondatore della società. […] Se qualcuno gli avesse strappato il piolo di mano e gli avesse gridato: “Impostore! I frutti sono di tutti e la terra è di nessuno!“, avrebbe risparmiato infiniti orrori all’umanità».

La libertà del singolo essere umano, quindi, è stata coercita, trattata, adulterata e modificata nella sua istintiva propensione alla valorizzazione del benessere collettivo, proprio dal possesso, dall’acquisizione della materialità delle cose come un qualcosa di separabile dal tutto-umano. Nel momento in cui si è scatenata la divisione dei beni un tempo comuni, si è dato adito al diritto di avere, di conservare, di trasmettere tutto quello che veniva accumulato alle proprie future generazioni.

Marx, oltrepassando gli anatemi un po’ luddistici, generalizzanti e totalizzanti di Proudhon sulla proprietà privata, scriverà fiumi di parole sull’identificazione tra valore e cose, tra valore e persone, tra valore d’uso e valore di scambio. La questione sociale (e civile) posta da Rousseau, infatti, non si comprende fino in fondo se non si analizzano i rapporti di forza tra le classi e se non si pone al centro di ogni successivo evolvere ed involvere della storia umana il tema dell’economia (politica).

Da Smith in poi, la contraddizione innescata dalla proprietà privata e, nello specifico, da quella tipicamente borghese, sarà il dilemma principe di una discendenza di elucubrazioni che proveranno a dimostrare la naturalità del capitalismo, l’eternità di un sistema socio-economico-politico-culturale ed etico su cui fondare l’età saturniana moderna di una umanità arrivata al limite della storia.

Rousseau nel “Du contract social ou Principes du droit politique” vuole teorizzare (e anche far praticare) un metodo di liberazione umana per tutti e per ciascuno, ponendo come incipit una delle frasi divenute più celebri nella storia del pensiero filosofico (antropologico e politico), ossia: «L’uomo è nato libero, e dappertutto è in catene», e affida questo nuovo compito ad un contratto da stipulare anzitutto con sé medesimi per creare una comunità dove la democrazia venga praticata dal basso.

Il “moi commun“, ossia l'”io collettivo“, è la massima aspirazione di una simbiosi tra uno e molteplice, il luogo nuovo di una realizzazione concreta di una qualità dei diritti che dà valore alla quantità.

Da uomo che si sentiva completamente diverso dal resto dei suoi simili, Rousseau è consapevole di fare una proposta politica che trascende i dibattiti dell’epoca, che sovverte i rapporti secolari tra le classi e che, pertanto, difficilmente è realizzabile in quei grandi apparati di Stati moderni che si vanno definendo: dalle Americhe alla vecchia Europa, e non dimeno nel vicino Oriente.

Ma quello che maggiormente gli preme è avviare un processo dialettico in merito, istillare il dubbio che l’unica democrazia possibile è soltanto quella che non subordina le masse ai rappresentanti attraverso la delega, attraverso il voto. Se Rousseau vivesse oggi qui, tra noi, non potrebbe fare altro se non affermare: “Ve lo avevo detto“.

Gli Stati che garantiscono la pluralità delle opinioni, la libertà di espressione (il cui grado varia da caso a caso, da luogo a luogo…) non sono nelle condizioni di dare le stesse garanzie sociali in termini di rapporti sociali. Lo squilibrio che esiste da sempre tra diritti civili e diritti, per l’appunto, sociali è la grande discriminante che nel Novecento tanto le democrazie liberali quanto quelle socialiste hanno dovuto fronteggiare senza riuscire a venirne a capo, quindi senza sciogliere la dicotomia esistente tra essere, pensare e vivere.

Si può dire di Rousseau che sia stato un romantico utopista, un coscienzioso e razionale sognatore, un illuminista che ha divagato sui diritti senza rapportarli allo stato reale e concreto delle cose, delle persone, dei poteri che gli stavano intorno, ma non può negare che grazie a lui molti dibattiti che ancora oggi teniamo sul diritto del singolo in rapporto a quello della collettività e viceversa, oppure sulla rappresentanza popolare, avrebbero avuto un taglio enormemente diverso e forse fuorviante.

Il proto-assemblearismo democratico del pensatore ginevrino fa, del resto, il paio con un proto-animalismo che, non per niente, viene da considerare quando si pensa all’universalità dei diritti degli esseri viventi. Animali umani come noi e animali non umani.

La sua condanna dello sfruttamento di questi ultimi da parte dei sapiens è il primo capitolo di una contemporanea critica a tutto tondo dello specismo, come contenitore di tanti altri pregiudizi che hanno creato una scala di disvalori che ha permesso la divisione in razze attraverso concettualizzazioni afferenti soltanto alle necessità di preservare i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti.

La pariteticità di questi ultimi per tutti gli esseri viventi è data – scrive Rousseau – proprio dalla sensibilità al dolore, alla possibilità (ed alla capacità naturale) di soffrire. L’abbiamo noi e l’hanno gli animali non umani. La ha anche il pianeta nel suo insieme. Ma questo, come sentenziava un bravissimo giornalista e conduttore televisivo, è un’altra storia.

MARCO SFERINI

29 ottobre 2023

foto: screenshot

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Il portico delle idee

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