L’immagine – del fotografo del Washington Post Jabin Botsford – ha fatto il giro del mondo: sugli appunti per il briefing di Trump alla stampa (a caratteri cubitali perché il presidente non debba mettere gli occhiali) una grassa scritta in pennarello nero sovrappone alla parola Corona (virus) la parola Cinese. Che Trump voglia tornare su un battibecco di qualche giorno fa (quando fu criticato perché con la sua definizione sembrava identificare la Cina come responsabile del virus) con una provocazione per i giornalisti non sorprende. È sempre stato meschino. In questo caso, però c’è dietro qualcosa di più.
Tra i primi effetti logistici del virus sulla campagna presidenziale è stato l’eliminazione dei comizi – il format privilegiato del presidente, per infiammare i peggiori istinti dei suoi seguaci e, a sua volta (come una versione malefica di Braccio di ferro con gli spinaci), per nutrirsene. Esiliato dentro alla Casa bianca, lontano dai red states che frequenta regolarmente per godere di quei bagni di energia, se oggi vuole andare in video, il presidente è costretto a sottoporsi a modi di comunicazione più tradizionali per la sua carica, come il discorso alla nazione (catastrofico quello della settimana scorsa – persino per la cinica borsa) e il detestatissimo briefing in sala stampa o nel Rose garden.
Virtualmente eliminato poco dopo il suo arrivo a Pennsylvania Avenue, data la crisi Covid-19, il briefing presidenziale è quindi riapparso -anche se in chiave modificata, post Corona. Con i giornalisti che passano il test del termometro prima di entrare e che sono in numeri drasticamente ridotti, per rispettare le distanze di sicurezza. «Ma che bello che siete così pochi. Se fosse per me, taglierei ancora, fino a uno o due di voi», ha esordito il presidente l’altro giorno, con l’espressione di uno intrappolato in una camicia di forza.
In controcampo, anche gli sparuti reporter non trasudavano dalla gioia. Da quella camicia di forza, Trump sta cercando di mantenere il filo della comunicazione con «i suoi», lanciando provocazioni spesso gratuite. La sottolineatura superflua sulla natura «cinese» del virus è parte di quella strategia. Come la soddisfazione con cui ha commentato la chiusura delle frontiere con il Canada e il Messico – «una cosa che volevo fare da tempo». Non trattandosi però di un comizio, Trump non ha intorno un pubblico entusiasta che applaude a ogni trovata orribile. Anzi, alle sue spalle, parla da sé (in contrasto al sorriso meccanico e servile di Pence), la faccia sofferente di Anthony Fauci che, nei momenti peggiori (insulti, commenti razzisti o bugie presidenziali che starà a lui correggere), abbassa gli occhi a terra.
E, visto che, invece delle urla di adorazione, ad ogni dichiarazione trumpiana segue semplicemente un’altra domanda, un po’ per frustrazione un po’ sempre per compiacere i supporter a casa, il presidente attacca regolarmente baruffa con i reporter presenti, quando non passa addirittura all’insulto.
Lo spettacolo è sconcertante. Il dittatore dello stato libero di Banana avrebbe più aplomb. E deve essere proprio disperato da come le cose stanno andando se è arrivato persino piazzare in un briefing – come se fosse un giornalista – il suo ex portavoce Sean Spicer (reduce da Dancing with the Stars!). Chiaramente, il Covid-19 complica anche la vita dei candidati democratici -con la campagna che perde di visibilità e rilevanza mediatica rispetto al virus. Tra Sanders e Biden, il senatore del Vermont è probabilmente quello che beneficiava di più dai town hall. In quei contesti, Biden ha una frazione dell’energia di Sanders. Per entrambi, adesso, il problema è trovare gli spazi e i toni giusti per diffondere il loro messaggi.
GIULIA D’AGNOLO VALLAN