Senso, sensazione, sensibilità, senso comune, buonsenso, sensazionalità, sensismo. Insomma, la percezione prima di tutto. I cinque sensi come forma di conoscibilità tanto personale, profondamente legata ad una forma di intuizionismo soggettivo, interiore ed esteriore, quanto più genericamente sociale e collettiva. Parte da qui la riflessione su un tema filosofico (ed anche scientifico) che ha traversato i millenni e che ha, molto trasversalmente, riguardato un po’ tutti i pensatori: tanto occidentali quanto orientali.
Che cosa significa “sentire“? Senza trascurare l’origine etimologica del verbo che ci rimanda, oltre che al latino, anche alla forma tedesca “sinnan/sinnen“, da cui deriverebbe il nostro “senno“, quello che Orlando perde e deve ritrovare, quello da cui si esce spesso quando si entra nella dimensione quasi aprioristica della follia, sentire molto comunemente viene ricondotto più che altro all’udire, al percepire suoni, musica, verbalità fonetiche.
«Hai sentito? Suonano alla porta!». Oppure: «Senti come canta quel canarino!». Sentire è percepire, è prestare ascolto, è porgere uno dei nostri sensi oltre la dimensione fisica che ci caratterizza, i confini di un corpo che sembrano limitarci e che, invece, sono già di per sé stessi la nostra protesi nel mondo. Udito, quindi. Ma anche tatto. Perché si sente soprattutto con le mani. Questo mezzo attraverso cui possiamo tattilmente venire a conoscenza della forma degli oggetti anche senza vederli.
Una persona ipovedente o completamente cieca riesce, grazie al tatto, a stabilire una comunicazione ininterrotta col mondo che la circonda e riesce a supplire con udito e tatto al senso che le manca. Dalla convergenza di tutti e cinque i sensi, se stiamo all’esperienza che ne abbiamo, otteniamo indubbiamente una forma di conoscenza del limitrofo che è molto superiore rispetto al singolo comportamento che possiamo adottare attraverso uno solo dei sensi citati.
Non c’è dubbio che vedere, ascoltare, toccare, odorare e gustare sono un quintetto di approccio con la materialità dell’esistente sufficientemente completo almeno per quanto riguarda il raffronto tra noi e il resto da noi. La mancanza di uno di questi, tuttavia, non impedisce di sviluppare, proprio interiormente, quella peculiare e singolare sincreticità tra elaborazione introspettiva dei sentimenti e confronto con quelli altrui.
Non vedere la persona che amiamo non significa non poterla amare esprimendo i nostri sentimenti con la fisicità. Non ascoltare le sue parole non significa non poterla capire mediante gli sguardi ed anche il tatto. Non poterla toccare non vuole per forza dire essere distante da lei, se la si può raggiungere con la propria voce o con la propria vista. Platone, proprio trattando della percezione dei sentimenti, istruisce il mito di Eros come una forma della conoscenza.
Figlio della Povertà e dell’Intelligenza, il semidio è costantemente alla ricerca daimonicamente socratica di quello che gli manca. E’ questa una manchevolezza irrisolvibile, perché Eros sa di non poter sapere e, quindi, percepisce mediante i sensi le passioni. Non le domina, ma le assume su di sé come forme di conoscenza: la bellezza da cui siamo attratti, tanto quella di un corpo quanto quella per la natura, è il principio estetico di una gnoseologia sensista.
Attraverso il desiderio, che nasce, cresce e matura in noi come espressione basilare della nostra peculariare caratterialità, noi tendiamo ad una conoscenza che ci proviene dalla recondità dell’interiorità più nascosta. Dentro noi c’è – come sottolinea molto bene James Hillmann – in nuce, in potenza ciò che noi diverremo. Il desiderio che proviamo è parte di noi ancora prima che noi lo proviamo. Così come tutte le sensazioni.
Non c’è nessuna predestinazione in questa considerazione psicoanalitica moderna, ma la constatazione che non siamo solo noi, nel cosciente e nel possibile, ad essere i costruttori di noi stessi. Eros ne è la dimostrazione. Nella scoperta della bellezza che universalmente ci circonda, noi affidiamo ai sensi il compito di attrarre questa felice constatazione, per appagarci, per vivere e sopportare la vita al meglio. La ricerca del bello, pur nella dimensione estetica più evidente, è sempre una ricerca conoscitiva.
Non fosse altro proprio di noi medesimi. Attraverso il confronto con la strarodinaria potenza della Natura, la sua sacralità (pasolinianamente intesa), la commozione che può derivarne è empatia fondamentale di ogni individuo che provi anche una sensazione di piccolezza e di finitudine davanti a tutto ciò ma che, prima di ogni altra cosa, percepisca l’interità tra sé e il resto dell’esistente.
Il fare parte del tutto è emozionante tanto quanto è insolubile la conoscenza dell’essere, dell’esserci, del contemplare e del doversi fermare ad uno stadio della percezione che non può darci altri se non una superficialità di apprendimento che, tuttavia, è utile per dimensionarci entro il mondo in cui ci troviamo. Qui senso dell’esistenza, sensibilità interiore, sensazione come percezione proprio tangibile di ciò che, di volta in volta, ci circonda, si compenetrano e diviene palese l’inscindibilità percettiva tra interiorità individuale ed esteriorità comune, oggettiva.
Quando sviluppiamo i nostri sensi, a partire dall’importantissima fase infantile, noi veniamo a contatto con una serie di rapporti tra causa ed effetto che, nel ripetersi, ci consentono di abituarci ai comportamenti naturali, non necessariamente riferibili alla razionalità esclusivamente umana. Un bambino che per la prima volta vede il mare, si meraviglierà dell’andare e venire delle onde. Dopo di ciò, quando le onde lo avranno avvolto più volte, nella ripetitività immodificabile (eppure diversa ogni singola volta) di quel meccanismo naturale, avrà imparato.
Saprà che il mare si comporta così quando arriva a frangersi sugli scogli, sulle coste, quando bagna la sabbia e sembra ritirarsi ma, alla fine, torna sempre e sempre si ritira. La sensazionalità delle esperienze fornisce al nostro bagaglio conoscitivo di vita qualcosa di unico. Se qualcuno ce lo domanda, difficilmente sappiamo spiegare perché nella nostra mente siamo molto più legati a certi ricordi piuttosto che ad altri. Possiamo tentare di giustificare la cosa con la piacevolezza del ricordo stesso.
Eppure, introspettivamente, siamo consapevoli del fatto che questa non è proprio tutta la spiegazione. C’è qualcosa di più ancora che però, nel guardarci dentro, non siamo in grado di scrutare fino in fondo. Quello che potremmo ritenere una sorta di “buio” dell’animo, della nostra psiche, è il luogo in cui meglio viene fuori la nostra essenza, protetta anche dai sensi che sono in collegamento con la realtà, con la coscienza e con la volontà.
Siamo abituati a dare a quest’ultima ogni benevolo attributo di positività per quanto riguarda la nostra esistenza: la volontà è, in sostanza, divenuta un sinonimo di “libertà” nella sua massima espressione. Ciò che è volontario è diretta espressione di noi stessi: ciò che vogliamo è ciò che pensiamo di volere, di desiderare. In quel momento e prescindendo dai condizionamenti terzi. Ma la volontà, che appare diretta dalle sensazioni anche meno evidenti, quindi guidata da una istintività propria del nostro “io“, è soggetta al dubbio, al ripensamento, alla considerazione a latere.
La volontà della volontà è erotica in quanto manifestazione del desiderio che non si può completamente appagare. Ciò che veramente vorremmo è, quasi sempre, irraggiungibile perché va oltre la scena in cui recitiamo; si proietta al di là del principio di piacere e, quindi, sprofonda nella frustrazione di ciò che ci manca veramente: superare i vincoli del normale, del consueto, del visibile, del percettibile, di ciò che i sensi ci proiettano come vero, reale, oggettivo.
Ogni volta che ci affidiamo ai sensi siamo, dunque, certi di affidarci ad un metodo conoscitivo incontrovertibile, incensurabile e ininterpretabile o, più che altro, di essere soltanto preda di un soggettivismo della conoscenza che fa i conti con le percezioni e le sensazioni comulate inconsciamente nel corso del nostro tempo di vita?
Ecco che dal lemma di sentire, da cui proviene appunto il senso, qui fa il suo ingresso una eterogenesi dei fini quasi lessicale, addirittura da complesso e articolato combinato disposto di concetti che intendono fare della sensazione qualche cosa di più di una percezione singolare: il caro, vecchio “buonsenso” comune viene tirato in ballo ogni volta che, eticamente e moralisticamente, si deve fare riferimento proprio alla conservazione dell’esistente.
Senza volergli fare torto definendolo, appunto, un concetto “conservatore“, il buonsenso è, o dovrebbe essere, ciò che di razionale si trova nell’afferire la coscienza con la convivenza, la razionalità con i rapporti sociali e civili, il singolo con il collettivo, l’unicità con la molteplicità. Di buon senso è ogni cosa che viene fatta e realizzata rispettando i meticolosi canoni dei benpensanti, di una borghesissima attitudine a mostare giustezza nella superiorità di ceto, mentre la povertà è, di per sé, un torto, una colpa, una inferiorità che, quindi, non può avere nessun legame con la ragione.
L’opinione del proletario è, rispetto a quella del borghese, qualcosa da quardare dall’alto in basso, prescindendo dalla giustezza o dall’erroneità, dalle sensazioni che magari ci dicono che quanto è stato detto, pensato o scritto abbia qualche attinenza con una giustizia che, dai Vangeli fino al “Manifesto” di Marx ed Engels, tratta sempre del tema dell’uguaglianza come elemento fondante dello sviluppo. Anche conoscitivo.
Poco dopo la fine della Rivoluzione francese, appena entrati quindi nell’età della Restaurazione delle corone di mezza Europa, la filosofia di Condillac venne, per così dire, “riformata” o, se vogliamo, aggiornata con una serie di considerazioni che implementarono (dipende ovviamente dai punti di vista) il sensismo e, in un certo qual modo, traghettarono la moderna speculazione del pensiero d’oltralpe all’ideologismo e all’eccletismo. Se Étienne Bonnot de Condillac aveva ritenuto che la conoscenza umana potesse attingere dai sensi quasi la totalità delle esperienze, gli “ideologi” ribaltano la teorizzazione.
Abbiamo accenato all'”io” nella disamina psicoanalitica hillmaniana, ricordando che nella parte inconscia (ma non inconoscibile) di noi stessi c’è l’essenza della crescita quotidiana dell’individuo. Abbiamo preso in considerazione il fatto che la dimensione impercettibile della psiche non è, nonostante lo si possa ritenere, disgiugibile dall’esperienza pratica, da quelle sensazioni che proviamo interiormente ed esteriormente grazie ai sensi: da un semplice mal di pancia ad un rapporto con altre persone e con accadimenti dei più diversi.
Dunque, dicono gli “ideologi” che succedono ai “sensisti“, è possibile ridurre l’io ad una sorta di spugna che assorbe tutto quello che la sensorialità gli comunica e nulla di più? Davvero la nostra conoscenza è mediata dai cinque sensi soltanto? Oppure c’è qualcosa d’altro, qualitativamente ed anche quantitativamente differente e sommabile a quello che già ci sembra evidente come metodo di apprendimento? Il “sentimento vitale” che Pierre Jean Georges Cabanis evoca quando tratta dell’esplorazione tutta interna al nostro mondo introspettivo, viscerale e invisibile agli altri, può essere una intuzione in questa direzione?
Può come può non essere, perché per quanto se ne possa trattare, ogni discussione rimanda inevitabilmente alla naturalità dell’esistente. L'”αίσθησις” (“Aistesis“) aristotelica, forse uno dei primi tratti del concetto di “senso” che compare nella storia della filosofia, ha, come molta altra parte del pensiero universalistico del pensatore di Stagira, condizionato le dissertazioni plurisecolari sulle sensazioni tanto più recondite in noi quanto su quelle percepite comunemente.
All’origine di questa differenza, peraltro abbastanza evidente, c’è la pluralità di mondi nel mondo, dell’irripetibilità singolare di ogni essere vivente rispetto ad un altro ma sempre dentro le regole attraverso cui la materia si trasforma e risponde a sé stessa dei propri cambiamenti. Oggi la scienza ci spiega quasi tutti i fenomeni naturali che danno agli esseri, per l’appunto, “senzienti” esperienze di conoscenza. Quasi tutti. Perché le nostre emozioni individuali sono, a dispetto della stessa indagine psicoanalitica, così uniche e speciali da sfuggire alla scientificità dell’analisi.
Non esiste una soluzione unica per ogni tipo di nevrosi. Così come non esiste una conoscenza unica data dai sensi. Sono cinque e tali restano. Sono uguali per tutti ma non producono gli stessi effetti due volte nel medesimo modo. L’unicità dell’esistenza è, probabilmente, un ulteriore gradino di complessità evolutiva della materia che si spinge oltre la fisicità umana ed animale. Ed anche questa considerazione, in fondo, ci regala una sensazione di stupore e di meraviglia.
Un pezzetto di consapevolezza in più. Una dimostrazione che con i sensi apprendiamo, sapendo che non finiremo mai di farci domande e quindi di voler conoscere oltre i nostri occhi, oltre le punta delle nostre dita, oltre il nostro palato, oltre il nostro naso e oltre le nostre orecchie. Proprio come la scrittura di un numero periodico: la conoscenza tende all’infinito ed è afferrabile solo fino ad un certo, sempre infinito, punto che si proietta in avanti senza farsi mai afferrare.
Avete presente Willy il Coiote e Beep Beep… Ecco, pressapoco così.
MARCO SFERINI
11 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria; sullo sfondo Gérard de Lairesse “I cinque sensi” (1668), in primo piano i ritratti di Étienne Bonnot de Condillac (a sinistra) e di Pierre Cabanis (a destra)