La problematica realizzazione della laicità italiana

Il dibattito sul disegno di legge Cirinnà è un’occasione non nuova, ma certamente ulteriore, per ridiscutere del grado di espressione laica che esiste nelle istituzioni repubblicane, nel Paese e...

Il dibattito sul disegno di legge Cirinnà è un’occasione non nuova, ma certamente ulteriore, per ridiscutere del grado di espressione laica che esiste nelle istituzioni repubblicane, nel Paese e in ogni singolo ambito della società in cui viviamo.
La laicità è un carattere necessario per uno Stato democratico, è, in sostanza, imprescindibile e non riformabile. Ma, come tutti i fenomeni di creazione umana, è interpretabile e gestibile a seconda delle situazioni che si vengono a creare, ai rapporti che interessano tanto l’economia quanto la cultura, tanto la società in senso lato quanto la singolarità di vita di ognuno di noi.
Una repubblica laica è, anzitutto, un Paese dove esiste il rispetto reciproco tra istituzioni diverse: non serve scomodare il Conte di Cavour per affermare questo; basterebbe il grande esempio dello Stato romano che venne creato nel 1849 sotto le macerie del contraddittorio regno di Pio IX.
Dalla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini iniziò a farsi strada il principio di una vera separazione dei poteri e delle influenze sociali tra Stato e Chiesa cattolica.
La Costituzione del 1948 ha ripreso quegli assunti e li ha resi moderni, ne ha fatto un architrave della giovane democrazia italiana postbellica. E, se si può rimproverare in molti ambiti una inapplicazione dei dettami della Carta nel corso dei settant’anni di repubblica che ricorrono proprio nei prossimi mesi, la difficile costruzione della natura laica dello Stato è stata sempre alimentata dalle intromissioni indebite del cattolicesimo negli affari interni di una Italia debole e riottosa alla critica verso il pontefice e tutto ciò che ne discendeva e derivava.
Ne è un esempio proprio in questi giorni l’altolà dei vescovi sul cammino che intraprenderà a breve il disegno di legge Cirinnà. Qualora il Parlamento della Repubblica dovesse approvare il disegno di legge, sostengono i monsignori, sarà Sergio Mattarella a doverlo bloccare.
Non si comprende bene per quale motivo laico. Laico, appunto. Perché ogni obiezione che si può fare, saltate le pregiudiziali pregiudizievoli di incostituzionalità, sono tutte legate ad aspetti di dottrina religiosa, a riferimenti teologici e biblici, quindi a scritti e tradizioni che non appartengono allo Stato italiano ma ad uno Stato estero e ad una confessione che è e deve essere soltanto quello e non un tribunale che giudica le libere e sovrane decisioni del nostro Parlamento.
Noi e loro, appunto. Noi siamo un popolo che si è organizzato in una forma di Stato repubblicano e che risponde ad una morale che deriva dai princìpi costituzionali. Il diritto canonico e i Vangeli sono materia di un altro Stato e di una religione che è sempre meno seguita dalla popolazione italiana, che è vissuta da molti come una ritualità stanca, senza quell’osservanza di precetti rigorosi che disciplinano la vita del perfetto credente, dell’osservante che aderisce incondizionatamente all’interpretazione che il romano pontefice fa del volere divino.
E’ insostenibile la teoria secondo cui i membri del clero hanno diritto alle loro opinioni sui temi che riguardano etica e società: papi, cardinali, vescovi, preti, frati e suore possono avere qualsiasi tipo di opinione, ma questa non può essere un appello alle istituzioni della nostra Repubblica per una modificazione del dibattito che si svolge in Italia, ad esempio, sulle unioni civili.
Noi abbiamo il diritto di avere non solo le nostre idee in merito, ma abbiamo soprattutto il diritto di vederle discusse dalle nostre rappresentanze istituzionali senza che esponenti di una confessione religiosa che è anche un potere temporale provino ad inquinare il dibattito con dichiarazioni dirette ai parlamentari e, tanto più, al Capo dello Stato.
Per fortuna la piazza del “Family day” si è rivelata per quello era e non poteva non essere: un concentrato di esasperazione della fede, di devozione oltre la devozione stessa, di integralismo della peggiore specie. Per fortuna lì al Circo Massimo la stragrande maggioranza del mondo cattolico di base non era presente. Trecentomila nostalgici di un patriarcalismo che viene elogiato come parola di dio tramite gli ammonimenti di San Paolo e secondo cui la donna deve essere sottomessa all’uomo, così come l’uomo deve essere sottomesso a dio.
Il Concilio Vaticano II, questo grande sconosciuto dal popolo del “Family day”, una piazza così vicina alle parole di Giovanni Paolo II su aborto, vita, preservativi, concepimento e famiglia e così lontana da quelle di Giovanni XXIII su “errore” ed “errante”.
Resta aperto il problema di una realizzazione della laicità italiana che corrisponda ai valori di una democrazia compiuta e che, quindi, guardi all’Oltretevere come ad un luogo dal quale non subire influenze attraverso appelli alla morale religiosa.
Facebook produce molte amenità, ma in questi giorni è stata pubblicata molte su migliaia di profili una frase di Gaetano Salvemini, il grande storico del Risorgimento italiano, che recità così: “Il clericale domanda libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale.“. E’ la migliore sintesi per qualunque dibattito presente e futuro.

MARCO SFERINI

2 febbraio 2016

foto tratta da Pixabay

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