Se il 7 ottobre 2023 rimarrà nella storia di Israele, della Palestina e del Medio Oriente come la data del più feroce attacco terroristico nei confronti dello Stato ebraico, altrettanto potrà vantare un primato di ricordo costante l’attacco israeliano alla Striscia di Gaza: al momento, quindi nell’inizio di questo febbraio 2024, i morti causati dall’offensiva ordinata dal governo di Netanyahu e Gantz sono oltre ventisettemila.
Di questi circa il 70% sono donne e bambini. Le immagini che i telegiornali e i circuiti Internet rimandano da quel lembo di terra tra il deserto e il mare mostrano soltanto cumuli di macerie, ospedali bombardati, campi profughi violati tanto dall’aviazione quanto dai carri armati. E feriti, cadaveri, sangue, sofferenza, mancanza di cibo e di acqua.
L’ONU, accusata da Israele di essere praticamente filo-Hamas, ha dichiarato che la Striscia di Gaza è ormai inabitabile. Un inferno sulla terra. Non solo più quella prigione a cielo aperto con cui è sempre stata ritratta nelle descrizioni metaforicamente simboliche di un apartheid che dura da più di mezzo secolo.
Parlare del 7 ottobre è per molti un presupposto dicotomico che dovrebbe distinguere, prescindendo dalla storicità degli accadimenti avvenuti in Medio Oriente e, nello specifico, in Israele e Palestina dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, tra buoni e cattivi, tra bene e male, tra Stato democratico e di diritto e organizzazioni terroristiche. Una semplificazione davvero banalizzante, che decostruisce un racconto che, oggettivamente, non è tollerato.
Chi ha tentato di fare la storia del conflitto israelo-palestinese, escludendo la propaganda dell’una e dell’altra parte, è stato minacciato spesso e volentieri di morte: dai fanatici nazionalisti-religiosi israeliani quanto dagli jihadisti arabo-palestinesi. Ilan Pappé lo sa molto bene, perché da decenni rincorre l’algida freddezza dei dati, dei fatti, di quello che gli archivi dicono e, verificando le fonti una per una, ha scritto una storia del dramma palestinese che è, proprio per questo, un dramma anche per il popolo israeliano ed ebraico.
Tra le tante sue opere, quella che di più oggi si avvicina al contesto di guerra aperta riaccesasi con l’attacco di Hamas del 7 ottobre, è “La più grande prigione del mondo. Storia dei Territori occupati” (Fazi editore, 2022): un vero e proprio report attualistico che non prescinde da nulla. Prima di tutto da quella storicizzazione dell’oggi, tanto aliena dai discorsi ufficiali del governo israeliano quanto esponenzializzata nelle dichiarazioni altisonanti dell’estremismo jihadista.
Pappé è un sostenitore della tesi dell’impraticabilità della soluzione sintitezzata nella formula “due popoli, due Stati“. Le ragioni di cui, non da oggi, ma soprattutto oggi, alla luce di quanto avvenuto nella fine del 2023 nei pressi del confine tra Israele e Gaza, sono avvedute ai lettori dallo storico israeliano a suffragio di questa stigmatizzazione, affondano nelle radici di una guerra permanente che è stata condotta da Tel Aviv tanto sul piano militare quanto su quello politico e sociale.
Un dato che balza in avanti rispetto ad altri è quello della colonizzazione ebraica della Cisgiordania: circa seicentomila israeliani oggi risiedono in quello che, dal 1967 in poi, era in pratica il cuore della Palestina rimasta in quanto tale, in quanto considerabile come embrione di un futuro Stato indipendente. Non senza ragione, Pappé afferma che, per avere davvero due paesi che convivano pacificamente, il problema del colonialismo israeliano è dirimente e non eludibile.
Noi parliamo sempre della Palestina invasa da Tel Aviv al plurale, come un insieme di “Territori occupati“. Lo fa anche Pappé, ad iniziare dalle prime pagine di questa sua fatica storica che è preziosa al pari degli altri suoi approfondisti studi. E’ un punto di dissenso che ci permettiamo di sottolineare: forse, per comprendere ancora meglio il dramma di cui trattiamo, dovremmo riferici a Cisgiordania e Striscia di Gaza come ad una unica entità, trattandoli come se avessero quella continuità territoriale che non hanno.
Dovremmo, quindi, parlare di “Territorio palestinese occupato“. In questo modo sarebbe più diretto il messaggio che esiste un paese sotto occupazione, che non ci sono delle porzioni di Palestina libera cui guardare con fiducia. L’Autorità Nazionale di Abu Mazen controlla solo formalmente alcune città della West Bank. Il controllo militare, ed anche quello civile, nella stragrande maggioranza dei casi è israeliano.
La colonizzazione ne è un effetto che si amplifica e un pregresso che lo determina in quanto politica espansionista di uno Stato in cui la democrazia vale solamente per gli israeliani. Pappé ripete più volte che non esistono processi di annessione di per sé buoni. Questo perché quando si ingloba qualcosa che è altro dal proprio Stato, lo si fa sempre e soltanto con l’intento di acquisire tutto ciò che di ancora buono c’è in quel determinato territorio.
E’ la politica imperialista che le superpotenze del dopo-Seconda guerra mondiale, hanno imbastito e condotto per decenni, giocando alla guerra fredda, spartendosi l’egemonia tanto reale e concreta quanto innervata su sistemi di protettorato davvero coloniale, provando a riscrivere le regole dell’esistenza di tanti popoli incapaci e impossibilitati a ribellarsi.
Gaza, da oltre venticinque anni, è quella grande prigione, unica al mondo, che l’Occidente ha finto per troppo tempo di non vedere mentre si manifestavano gli effetti più brutali delle azioni violente della politica e del militarismo israeliano. Pappé fa dei paragoni per cercare un po’ di verità storica e di oggettività attualistica in questa complessa matassa di questioni etnico-nazionali e, ovviamente, internazionali.
Ed i riferimenti storici sono la prima evidenza di un conflitto nato prima sia del 7 ottobre 2023, e di cui la tragedia consumatasi in quella data è figlia diretta e (in)naturale, sia della prigionia a cielo aperto della porzione di terra più densamente popolata al mondo. Bombardare Gaza, infatti, lanciando missili, cannoneggiando palazzi e sganciando ordigini da migliaia di metri di quota è di per sé un atto criminale, perché è impossibile evitare la strage dei civili.
Questo libro è stato scritto prima dei fatti del 7 ottobre, ma non per questo è carente nell’offrirci gli strumenti per una disamina compiuta proprio dei fatti che sono alla base della escalation di questi ultimi anni tanto nell’area mediorientale nel suo complesso, quanto nel lembo di terra che include la Palestina occupata e lo Stato di Israele.
Quest’ultimo fonda sempre di più sé stesso su una politica intrisa di religiosità che, a sua volta, è la premessa per la giustificazione storica e moderna, pregressa e attuale di un diritto quasi onnipotente sul resto dei popoli. Si è giustamente più volte fatto riferimento ad un concetto di “punizione collettiva” dei palestinesi da parte dello Stato ebraico. Non è una esagerazione dettata da una enfatizzazione degli avvenimenti. Semmai è l’oggettiva constatazione di come Israele ha inteso la questione fino ad oggi.
Il fatto di essere uno Stato circondato dal mondo arabo ha autorizzato quasi moralmente Tel Aviv ad una politica espansionista e, quindi, imperialista, divenendo da protettorato britannico, una sorta di dependance statunitense nell’area mediterranea e mediorientale. Un avamposo molto opportuno per controllare gli sviluppi delle politiche tra Mar Rosso e Golfo Persico, nel passaggio intercontinentale tra Asia, Africa ed Europa.
Lo storico Patrick Wolfe ha molto bene sintetizzato la politica di occupazione della Cisgiordania e di Gaza con l’espressione “colonialismo dei coloni“: il che significa una reiterazione continua di sottrazione di terre, case, strutture, infrastrutture e beni di ogni tipo ad una popolazione palestinese che è stata costretta a ritirarsi sempre più entro confini ristretti, migrando nelle grandi città, abbandonando le campagne e, quindi impoverendosi.
La diastrosa situazione politica, pertanto, si accompagna ad una condizione sociale del popolo palestinese che non è nemmeno paragonabile ai tanti privilegi di cui godono i coloni che hanno strappato agli autoctoni praticamente tutto; col benestare e la protezione dei governi che si sono succeduti in Israele.
Se, da un lato, lo Stato ebraico punta ad una normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi che sono punti di riferimento delle reti politiche e commerciali della vasta area del mondo che va dall’Iran fino alle coste africane, quindi il Qatar, l’Arabia Saudita, l’Egitto, nonché il Marocco più lontano ma sempre presente, dall’altro lato non pensa affatto di mollare in quanto a regime di apartheid, di segregazionismo dei palestinesi.
I milioni di abitanti di Cisgiordania e Gaza sono, dunque, un’arma utilizzata nelle trattative per stabilire quei bilateralismi e quegli accordi di più vasto raggio che, proprio dopo il 7 ottobre 2023, sembrano invece essersi quanto meno fermati sulla soglia del tempo, per osservare che cosa accadrà.
La questione palestinese, a cui Hamas ha dato un contributo peggiorativo, consegnando ad Israele il pretesto per radere al suolo Gaza, implementare una politica espansionista a cui si unisce un intento genocidiario denunciato da tanta parte del pianeta, ONU e Sudafrica in primis, rimane pertanto incuneata in una serie di interessi molto più grandi di quello che, apparentemente, potrebbe essere visto e considerato come un conflitto del tutto regionale e limitato.
Ciò che avviene nello Stretto di Bab el-Mandeb, là dove il governo degli Houthi bombarda le navi che intendono risalire il Mar Rosso per commerciare con Israele o passare nel Mediterraneo, tollerando solo il transito delle navi russe e cinesi, è emblematico di come la guerra israelo-palestinese sia, nel suo particolarissimo carattere territoriale, un dramma di dimensioni veramente globali.
Tanto più oggi, nella riconfigurazione del multipolarismo, degli aggregati di Stati che si compongono e si scompongono in alleanze contingenti, senza più molti preconcentti ideologici da Guerra Fredda. La sopravvivenza nella Palestina occupata è una tragedia che non si può isolare: ha attraversato più della metà del secolo scorso e si è inserita nel nuovo millennio con una ferocia inaudita. Non di meno, entro questo contesto intertemporale e globale, va presa in considerazione la politica israeliana.
Alle storiche correnti che esprimono il nazionalismo sionista si sono sovrapposte e, per certi versi, gli sono derivate le teorizzazioni di due grandi filoni, per così dire, politico-culturali tra i sostenitori di un teocraticismo moderno che vorrebbe uno “Stato di Giudea” che, quindi, comprendesse la regione storica in quanto tale in un “Grande Israele“, ed i sostenitori di un mantenimento di quello che, almeno prima del 7 ottobre, si sarebbe potuto definire lo “status quo“.
Difficile poter dire cosa, soprattutto oggi, distingua il propugnare una teocrazia democratica da una democrazia teocratica. L’interscambiambilità dei valori e dei precetti è così indistinguibile da riuscire praticamente impossibile una preferenza in chiave di “meno peggio“. Ilan Pappé ci porta nel cuore dell’occupazione israliana in Palestina. Dati alla mano ci mostra tutto questo senza possibilità di interpretazione.
Come farebbe qualsiasi storico, dovendo trattare di un tema assolutamente attuale, opera nel confronto col passato tenendo bene a mente i ruoli dei protagonisti e gli sviluppi dell’economia locale e mondiale, aiutandoci così a capire perché il 7 ottobre è divenuto sinonimo di terrore, orrore, massacro. E del perché oggi a Gaza restino solo macerie e decine di migliaia di morti, molte decine di migliaia di feriti, praticamente quasi più nessun aiuto umanitario e una resistenza jihadista che si infiltra nei cunicoli e sfugge a Tsahal.
Una riflessione, nemmeno tanto separata da questa immane tragedia, merita la questione del dopo. Quando vi saranno le condizioni per un accordo, per una pacificazione, queste su cosa potranno vertere e convergere al fine dello stabilimento di un equilibrio duraturo nella regione tra il Giordano e il Mediterrano? Qui Pappé dissente dalla narrazione dei “Due popoli, due Stati“. Il punto più controverso – secondo lui, e non certo a torto – rimane la colonizzazione dei coloni in Cisgiordania.
Ad oggi sono oltre seicentomila gli israeliani che si sono insediati nella West Bank. E’ pensabile creare uno Stato palestinese con queste centinaia di migliaia di persone che hanno brutalmente strappato terreni e case ai palestinesi stessi? Ed è pensabile ed attuabile una soluzione che li riveda tornare entro i confini dello Stato di Israele, un po’ come accadde per gli insediamenti di Gaza, smantellati da Sharon?
Si potrebbe essere tentati di cavarsela rispondendo che sarà una questione tutta interna alla dialettica politica tra le forze della Knesset favorevoli al mantenimento dello status quo e quelle invece più integraliste sul piano religioso, razziste e suprematiste che vorrebbero l’annessione di Gaza e della Cisgiordania ad Israele (al pari del Golan che, peraltro, è già incluso nello Stato ebraico).
Ma, in realtà, determinante sarà il ruolo delle grandi potenze mondiali: dagli Stati Uniti d’America alla Russia, dalla Cina ai paesi arabi, seppure divisi sulla questione palestinese. Pappé ritiene del tutto superata la formula degli Accordi di Oslo e valuta più percorribile la strada di un mutamento politico in Israele che permetta la costruzione di una unità democratica tra i due popoli.
Una sorta di confederazione, di reciproca convivenza in un unica entità tutta da inventare. Se si fa il raffronto tra le immagini che si vedono da Gaza con l’idea di una società multietnica e multireligiosa, entro i cardini di una democrazia compiuta in Israele e Palestina, bisogna avere molta fantasia oggi per permettere a questa immaginazione di resistere più di un secondo nella propria mente.
Ma, qualunque sia la forma politica che succederà alla guerra, una cosa risulta abbastanza acclarata e certa: senza uguali diritti sociali, civili ed umani tra israeliani e palestinesi, qualunque ipotesi di pacificazione, di instarurazione di reciproche relazioni non più conflittuali rimarrà puramente concettuale e priva di aderenza alla realtà.
E su questo, un po’ tutti dovremmo essere d’accordo, perché apartheid ed occupazione sono frutto di una convergenza tra politica incivile, politica militare e politica economica imperialista. Una triade che rimette al centro al questione di una alternativa globale in tema di diritti civili, politici ed umani. Mai come nella questione palestinese è evidente l’intersezione tra politica a sostegno dell’economia e di entrambe a sostegno del militarismo. Che le ricambia, ovviamente, con le guerre.
La prigione più grande del mondo è oggi, su esplicita dichiarazione dell’ONU, il luogo della Terra più inabitabile. Ecco la democrazia israeliana in risposta al terrorismo di Hamas. Un genocidio.
LA PRIGIONE PIÙ GRANDE DEL MONDO
STORIA DEI TERRITORI OCCUPATI
ILAN PAPPÉ
FAZI EDITORE, 2022
€ 20
MARCO SFERINI
7 febbraio 2024
foto: screenshot
Leggi anche: