I giornali inglesi si riempirono di titoli sul principe Harry quando nel 2005 indossò una divisa delle SA naziste ad una festa privata, con tanto di bracciale con svastica bene in vista.
Fu giudicata una goliardata, e certamente lo era. Ma non si poteva non evidenziare la superficialità con cui un membro della casa reale inglese, molto disinvoltamente e, a suo dire, consigliato dal fratello William e da sua moglie Kate, aveva fatto sfoggia di emblemi che, non solo per la Gran Bretagna, ma per il mondo intero erano (e sono) sinonimo di olocausto di popoli, di decine di milioni di morti.
Più vicino a noi, nella Predappio che ospita la cripta dei Mussolini, meta di pellegrinaggio di quei neofascisti che si addobbano come militi della repubblichetta fantoccia di Salò, che esibiscono fez ed orbaci, stivaloni e gagliardetti, bandiere con l’aquila imperiale e sguardi mascellarmente muscolosi alla Benito, capita ogni anno di assistere alla parata di una serie di personaggi per cui, se è pietoso invocare la parziale infermità mentale, non di meno è giusto fare appello all’apologia di fascismo.
Una di queste nostalgiche della dittatura nazifascista aveva addirittura indossato una maglietta, ovviamente nera, con ritratto sopra il castello di Disneyland e la scritta però modificata in “Auschwitzland“.
Qui siamo in presenza della più che parziale infermità mentale, a metà tra l’incapacità di intendere e di volere e la consapevolezza di fare qualcosa di irriverente nei confronti di una verità dei fatti che viene negata e che ha fatto del termine “revisionismo” un convitato di pietra dei dibattiti sullo sterminio del popolo ebraico da parte del Terzo Reich, così come di zingari, omosessuali, apolidi, slavi, popoli considerati reietti, inferiori rispetto alla arianità nazista.
Non molto tempo fa, con un tono spregiudicatamente spacciato per ironicamente goliardico, alla radio un alto esponente delle istituzioni, di cui è pietoso tacere pure il nome, affermò che il terzo battaglione dell’SS-Polizeiregiment “Bozen” che acquartierava a Roma – presunta città aperta – nel 1943 e che marciava ogni giorno per le vie della capitale di una Italia in mano a nazisti e fascisti e passava per via Rasella alle due del pomeriggio, non era composto da soldati armati di tutto punto, ma niente di più era se non una scanzonata banda di vecchie glorie militari.
La smargiassata disinformazione storica è fin troppo ostentata per essere credibile. Solo chi conosce bene i fatti può altrettanto efficacemente creare il casus belli (è proprio il caso di dirlo…) per creare artatamente una polemica che, infatti, distrae l’opinione pubblica dal contesto della politica nazionale, che dirotta l’attenzione su una diatriba storica che non avrebbe nessun senso, se non fosse che è stata data alla luce da uno storico esponente post-fascista (poco post e molto fascista) che spolvera ancora i busti di Mussolini che tiene in casa propria e ricopre la seconda carica dello Stato.
Al revisionismo storico si accompagna, pertanto, sia il tentativo rubicondamente giocondo di minimizzare il portato delle proprie dichiarazioni buttandola, come si usa dire, “in caciara“; sia il sottile proposito di insinuare comunque un dubbio, di aprire le porte ad una incosciente rivalutazione di tutti i termini annotati e accertati dalla Storia.
Quasi di negare persino l’evidenza, così come si potrebbe negare la luce del sole che splende quasi ogni giorno. Il fatto che ogni tanto sia nascosta dalle nubi, non significa che la nostra stella madre sia scomparsa dalla faccia dell’Universo.
Pochi giorni fa, alla proiezione del film “Comandante” in un cinema di Spilimbergo (in provincia di Pordenone), alcune persone si sono presentate vestite con divise naziste dell’epoca della Seconda guerra mondiale.
Secondo un esponente di Fratelli d’Italia, con loro avrebbero dovuto sedere tra le poltrone anche un simpaticone con una divisa da partigiano titino e uno con una divisa da fascista. Questi due avrebbero dato forfait all’ultimo; così tra elmetti con i colori della Wehrmacht e svastiche su berretti e giacche, è andata in scena questa ennesima “goliardata“.
Nell’epoca dei social, della condivisione universale dei contenuti, nessuno può più accampare la scusa del “non sapevo“, “non volevo“. Se ti vesti da nazista, sai benissimo che qualcuno ti riprenderà col telefonino e diffonderà quelle immagini che, come si usa dire oggi, diventeranno “virali“.
Ma queste persone non avevano nemmeno questa scusa per tirarsi fuori da una polemica che arriverà in Parlamento su interrogazione di deputati di Sinistra italiana. Nemmeno un attimo dopo essere entrati in quel cinema, già giravano appunto sui social le loro immagini, diffuse da un ex consigliere comunale del partito di Giorgia Meloni.
Nemmeno a dirlo. Nemmeno a pensarlo. Quasi dato per scontato. Poi si dice l’essere prevenuti.
I fatti hanno la testa dura e i nostalgici pure: non ce la fanno proprio a non rivangare qualche manifestazione oscena del passato, qualche nostalgia che riemerge di tanto in tanto, quasi fosse un istintivo, inconscio, prepotente venire a galla delle ragioni sempre prime che ispirano la politica conservatrice di oggi di forze politiche che, senza nascondimento alcuno, conservano nel loro simbolo la fiamma tricolore del vecchio MSI.
Se Gianfranco Fini aveva almeno provato a portare la destra neofascista al campo del postfascismo, del liberalismo conservatore, passando per Fiuggi, andando in Israele a rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto, dichiarando che il fascismo era stato parte del male assoluto prodottosi nella Seconda guerra mondiale, i meloniani proprio non ce la fanno a porre una cesura, una intercapedine, una linea di demarcazione netta tra loro nel presente e loro nel passato.
Per chi si tiene in casa i busti del duce e, al tempo delle evoluzioni finiane del MSI in Alleanza Nazionale, dichiarava testualmente: «Dovreste ringraziare Fini per aver definito il fascismo il male assoluto, perché adesso siamo liberi di dire a alta voce tutte le altre cose buone che è stato il fascismo», è naturale parlare del terzo battaglione dell’SS-Polizeiregiment “Bozen” come di una scalcagnata banda di suonatori vestiti da nazisti.
Bisogna tentare di buttarla in burletta se si vuole suscitare una reazione popolare tanto uguale quanto contraria: la prima serve ad empatizzare con chi ancora pensa che Mussolini qualcosa di buono l’abbia fatto insieme ai gerarchi che si riempivano le tasche di ricchezze sottraendole al popolo italiano; la seconda serve a rimarcare le distanze con quell’antifascismo di cui proprio non si sopporta nulla, nemmeno il nome, nemmeno il fatto che la Repubblica sia nata dalla Resistenza, dopo di esse e grazie all’eliminazione della dittatura fascista e dell’occupazione nazista del Paese.
Tra le tante sfumature di nero che si possono rimarcare in questi presunti episodi di “simpatici“, camerateschi goliardi del neofascismo dell’ultima ora fatto passare, appunto, per sfilata di divise, per rimpatriata di vecchi armamentari che rinverdiscono le esaltazioni fanatiche di chi oggi agisce indisturbato a volte come dirigente, altre volte come militante di un partito al governo della nazione, c’è quella di chi prova ad inquadrare il tutto nell’innoquità assoluta dei buontempone.
Sono ragazzi! Sono ragazzate! Sono praticamente una semplice manifestazione di insofferenza per un mainstream culturale che, a ben vedere, dovrebbe essere invece il punto di partenza dell’essere cittadini e comunità al tempo stesso nell’Italia moderna: la Costituzione repubblicana, le sue norme, il suo fondamento storico, politico, sociale, civile e morale.
Il consesso democratico non si può permettere intransigenze che lo neghino a sua volta e, quindi, deve permettere che anche le peggiori opinioni abbiano diritto di essere espresse. Ma non è ammissibile anzitutto lo sfregio della Storia, il vilipendio dei fatti, la presa in giro di un’epoca che è stata una tragedia immane e che parafascisti di oggi, mascherati più che altro da improbabili statisti, donne e uomini votati al nuovo corso della politica italiana, contribuiscono a ridicolizzare, banalizzando ciò che non è riducibile ad una sorta di pseudo-folklore da operetta mal riuscita.
Quei signori che si sono agghindati da nazisti e si sono seduti sulle poltrone di una sala cinematografica di Spilimbergo, se davvero hanno visto il film e ne hanno compreso il significato, avrebbero dovuto un attimo dopo togliersi quegli abiti, perché il comandante della regia marina che affonda il sommergibile belga e che salva i naufraghi dalla morte certa in mare aperto, non è un uomo tutto d’un pezzo come lo intenderebbero loro. E’, con tutte le sue contraddizioni, un personaggio multiforme, che si richiama all’italianità soltanto quando parla di umanità.
Un film come quello interpretato da Pierfrancesco Favino non poteva non prestarsi alle più differenti acquisizioni personali, alle interpretazioni più soggettive e, per questo, passibili della distorsione anzitutto storica, perché letto attraverso le lenti del pregiudizio politico che sovrasta i fatti, che pensa di estrinsecare dal particolare della divisa, dall’appartenenza al mondo militare, dal coraggio eroico che ne deriverebbe sempre e comunque, quella purezza quasi razziale di un italiano che è, per questo, superiore al resto del mondo che lo circonda.
Se davvero quella è stata una comparsata scenografica, un modo per creare in sala un clima emotivamente coinvolgente nei confronti dell’epoca in cui il film svolge gli eventi che tratta, allora ci si può aspettare che, in queste vacanze natalizie e capodannesche, gli stessi si vestano da eroi dei fumetti quando uscirà il classico per i bambini, oppure da scanzonatissimi emuli degli attori da cinepattone.
Quasi tutte maschere satiriche del cafonissimo mondo vip, dei grandi ricchi e menefreghisti. Sicuramente quelle interpretazioni calzerebbero loro a pennello. Molto di più delle divise degli ufficiali hitleriani e degli elmetti dell’esercito tedesco. Molto, ma molto di più. Davvero.
MARCO SFERINI
9 dicembre 2023
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