La prepotenza liberista macroniana alla resa dei conti

Il 15 dicembre 2019 la cattedrale di Notre-Dame de Paris è stata preda di un furioso incendio che ha rischiato di devastarla e che ha, comunque, distrutto la guglia...

Il 15 dicembre 2019 la cattedrale di Notre-Dame de Paris è stata preda di un furioso incendio che ha rischiato di devastarla e che ha, comunque, distrutto la guglia e il tetto, ricostruiti e pronti ora per una inaugurazione sensazionale al cospetto di una gran parte di leader di molti paesi.

L’evento, negli intenti, avrebbe dovuto essere la consacrazione di una nuova rinascita non solo culturale ma anche politica per la Macronie, per quel sistema dirigenziale di potere che ha nell’attuale inquilino dell’Eliseo il fulcro su cui si orientano le politiche di austerità imposte da un patto di stabilità sempre più problematico anche per nazioni che non abbiano gli alti indici di instabilità dell’Italia.

Alle radici della crisi della politica francese, che si riapre oggi con la sfiducia del governo Barnier da parte tanto del Nouveau Front Populaire di Jean-Luc Mélenchon quanto del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, c’è anzitutto l’insostenibilità imposta dal proseguimento delle misure politiche sempre più liberiste. Controfirme a tutto spiano, senza la possibilità di riscontrarvi un qualche carattere anche vagamente riformista.

In particolare, con quella pensionistica, ispirata proprio da Emmanuel Macron, pesano sul groppone di una Francia impoverita dai dettami europei tutti i vincoli dei bilanci e le compatibilità istruite dalla Commissione e dalla Banca centrale: il risultato sono decine di migliaia di posti di lavoro a rischio, tanto nella pubblica amministrazione quanto nelle aziende.

Lo sciopero generale di oggi, tempestivamente coincidente con le dimissioni che Barnier rassegnerà intorno alle dieci del mattino, quindi proprio mentre queste righe vengono scritte, si carica di qualcosa di più di un significato “politico” che, comunque, avrebbe nettamente avuto: unisce il malessere sociale alla crisi strutturale della democrazia repubblicana.

A partire dalle funzioni di garanzia e di governo della Presidenza della Repubblica che non ha rispettato il voto delle legislative e che non ha, quindi, affidato al Nouveau Front Populaire il governo della nazione pur in un tortuosissimo cammino di ricerca della maggioranza dell’Assemblée nationale.

Ciò che pare lapalissiano è, in questa Europa di fine 2024, l’entrata in crisi del modello alleantista tra centro liberista e destra sovranista e neonazionalista.

L’opportunismo delle fazioni potrà anche essere un carattere endemico e tipico di chi, da posizioni continuamente trasformistiche, è abituato a favorire gli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari che sono il sostegno della struttura continentale. Ma, alla fine, non paga in termini di condivisione dei princìpi e dell’architrave complesso delle democrazie che, semipresidenzialismo o meno, hanno comunque una natura parlamentare.

La Macronie fallisce su tutta la linea: di difesa delle istanze dei ricchissimi, di pacificazione sociale della Francia e nel tentativo di favorire questi interessi di classe con una sorta di tecnicismo mascherato da governo di unità nazionale appoggiato da quella destra neofascisticamente nazionalista che è oltre il fronte repubblicano.

La linea dei socialisti, a ben vedere, parrebbe quella pragmaticamente più di buon senso: assegnare il governo al Nouveau Front Populaire e fare argine nell’Assemblea Nazionale con un sostegno di tipo desistenziale al centro dello schieramento parlamentare, lasciando fuori il partito di Madame Le Pen. Fare questo vorrebbe però anche significare la messa in mora della liquidazione della tanto odiata riforma pensionistica di Macron: ciò che legittimamente (e giustamente) vorrebbe il NFP va a scontrarsi con le precondizioni per un accordo di non censura parlamentare con il centro che è fedele al Presidente.

La maggioranza della coalizione di sinistra (La France Insoumise e il PCF, nonché ecologisti e civici) punta ad un ritorno alle urne. Sulle dimissioni di Macron ci si divide ulteriormente: i comunisti non le reputano prioritarie, mentre il partito di Mélenchon sì. Per ora, il dato da capitalizzare politicamente è l’unità sulla mozione di sfiducia che ha prodotto l’effetto sperato.

L’apertura della crisi di governo in Francia, poi, fa il paio con quella tedesca: lo schema si ripete, anche se premesse e conclusioni sono differenti. SPD, Verdi e Liberali sono alle prese con una sfiducia che porterà al voto e, con tutta probabilità, innescando la pericolosa spirale della sempre maggiore disaffezione, dettata dalla altrettanto crescente disillusione delle classi popolari per risultati ampiamente mancati in termini di sostegno e giustizia sociale, produrrà l’effetto di consentire un aumento dei voti dell’ultradestra di Alternative für Deutschland.

Componendo i pezzi di questo difficile puzzle, comparirà sempre più distinguibile la figura di una instabilità generale dell’Europa.

L’incapacità di governare la crisi dell’economia oggi, economia peraltro di guerra, è il prodotto della mancanza di sostegno da parte delle classi popolari: c’è un evidente scontro diretto tra esigenze, bisogni e diritti fondamentali sul terreno sociale e civile, nonché su quello prettamente umano, e il grande capitale, la grande impresa, l’alta finanza che sono rappresentate dalla dirigenza di Bruxelles, di Francoforte e dalle loro propaggini nazionali che si esprimono nei governi, in questo frangente, di Francia e di Germania.

La presunta “stabilità” del governo italiano, invece, è data dal fatto che non esistono le premesse di una opposizione capace di rovesciare i rapporti di forza consolidatisi.

Ma, mai come nella storia d’Italia, è chiaro che tanto i ceti popolari quanto i vertici confindustriali, in una eterogenesi dei fini che ha spesso dell’assurdo (almeno per una gran parte del mondo del lavoro e del precariato, confuso, illuso e prontamente disilluso), optano per quelle novità politiche che si raffigurano tali soltanto perché non hanno ancora direttamente sperimentato il loro dirigentismo in un contesto di alleanze che ripropongono, in tutto e per tutto, vecchi schemi e vecchie ricette cotte e stracotte.

Ma l’obiettivo rimane sempre uno soltanto: far gestire le crisi da governi compiacenti. Se, come nel caso francese, le sinistre veramente tali ottengono un consenso che le proietta verso l’esecutivo, scatta il fronte liberista a mettere giudizio a quello repubblicano che reclama il diritto e il dovere di governare secondo la volontà della nazione facendo l’interesse pubblico e rendendo variabile dipendente di quest’ultimo quello privato.

Se Macron avesse adempiuto al suo dovere, avrebbe in sostanza alterato le fondamenta del suo sistema di gestione presidenziale dell’esatto opposto: la garanzia dei privilegi privati da cui deriva tutta l’instabilità per gli interessi del popolo francese, delle lavoratrici, dei lavoratori, dei pensionati e degli studenti. Sarebbe stato anzitutto un paradigma liberista ad essere messo in discussione: la possibilità per l’ordine democratico di contare qualcosa rispetto alle prepotenze dettate dal mercato e dalle banche.

All’origine della travagliata nascita del governo di Barnier, che oggi ha termine, vi è questa esigenza primaria di protezionismo privatistico, di garanzia sostanziale del funzionamento del capitalismo transalpino nell’ambito più ampio del malfunzionamento di quello continentale. La rivendicazione del ruolo di governo da parte del NFP è, oltre ad un punto di diritto sulla base della delega elettorale, anche e soprattutto una difesa dell’architrave della democrazia e del frontismo repubblicano.

Barnier si dimette, ma il vero sconfitto, su tutta la linea, è Emmanuel Macron. Per arrivare all’inaugurazione della nuova Notre-Dame con un governo in carica, il Presidente dovrà nominare un nuovo Primo ministro entro ventiquattro ore. Una impresa impossibile se aderisse ai criteri della serietà istituzionale e, nuovamente, del rispetto del voto popolare.

Siccome l’inquilino dell’Eliseo agirà con gli stessi crismi adoperati per la nomina di Barnier, ci sono da attendersi due scenari: l’incarico ad un altro esponente del centrismo che provi a separare i socialisti dal Nouveau Front Populaire per il sostegno ad un governo di pseudo-unità nazionale (il che darebbe maggiore fiato a Madame Le Pen e a Monsieur Bardella per farsi ancora più sostenitori dei diritti sociali…), oppure un esecutivo prettamente tecnico.

Quest’ultima – lo affermano tutti i più attenti conoscitori della storia politica ed istituzionale francese – sarebbe una vera e propria novità nel panorama di una Quinta Repubblica in cui il carattere politico dei governo non è mai venuto meno.

Una simile ipotesi dovrebbe per forza avere il consenso di una parte della sinistra e della destra per poter vedere la luce e nascere come temporanea soluzione in vista di un ricorso anticipato alle urne. Scongiurare questa ultime eventualità è ciò che Macron si propone per mantenere il suo ruolo di punto di riferimento del capitalismo francese, di quella che, un po’ ampollosamente si potrebbe ancora oggi definire la “borghesia” francese.

Queste manovre vischiose antidemocratiche e impopolari, altro non fanno se non permettere all’ultradestra lepenista di contendere alla sinistra il primato della rappresentanza dei ceti più disagiati e impoveriti dalla crisi multipolare. Da Parigi a Berlino, l’asse della crisi del centro che si appoggia alle destre moderate, o delle socialdemocrazie che guardano sempre e soltanto al centro invece che alla loro sinistra, si concretizza nello svilupparsi di nuove tensioni anticivili che servono per alimentare le incertezze e le insicurezze prettamente di carattere sociale.

Ancora un volta, la responsabilità dell’emersione prepotente delle destre estreme è tutta quanta di un ceto politico servilista nei confronti del capitale, per natura impossibilitato a valorizzare gli anticorpi sociali alle minacce contro la stabilità delle democrazie unitamente a quella sociale. Nemmeno il keynesismo è sufficiente per questi liberisti che sacrificano sull’altare dei valori repubblicani il patto interclassista liberale per dare spazio alla ferocia della torsione moderna del sistema delle merci e dei profitti.

La Macronie è la quintessenza di queste contraddizioni che si dibattono nella stanca riproposizione di geremiadi che pretenderebbero di essere di convincimento su tempi, modi e fasi della politica nel nome dell’interesse generale. Si tratta dell’esatto contrario. Macron e Scholz, pur da punti di partenza differenti, arrivano alle quasi medesime conclusioni di un percorso istituzionale disastroso e devastante per i loro paesi: trascinano il cuore dell’Europa verso un buio dove saltare è davvero una incognita.

Una incognita che, comunque vada, non promette niente, ma proprio niente di buono.

MARCO SFERINI

5 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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