La cesura tra il Conte bis e il prossimo governo Draghi è qualcosa di più di un semplice avvicendamento a Palazzo Chigi. Almeno questo è un dato di fatto, una evidenza cui non è data interpretazione e non è consentito tema di smentita: è sotto gli occhi di tutti la rivoluzione politica che l’ex Presidente della BCE ha generato con l’accettazione del mandato affidatogli da Mattarella. Le linee direttrici dei maggiori partiti presenti in Parlamento si sono letteralmente capovolte; sono saltati paletti e pregiudiziali che parevano granitici e sulla cui inossidabilità avrebbe scommesso anche il più esperto dei bookmakers.
Non si tratta solamente del racconto di giornali, televisioni e Internet, ossia della costruzione di una vera e propria agiografia ad uso popolare, per preparare il terreno del consenso a Draghi in vista dei provvedimenti duri che dovrà prendere e che saranno, per la maggior parte, indirizzati contro i ceti più deboli dell’Italia pandemica. Accanto a questa presentazione del nuovo Presidente del Consiglio, che ne esce come un beato re taumaturgo, capace di trasformare l’orrendo in fantastico, il povero in ricco e il malato in sano, se ne posiziona un’altra che ha radici nel curriculum vitae dell’economista di lungo corso: dalla Banca d’Italia a quella Mondiale, da Goldman Sachs alla BCE.
Di pari passo con la figura di Draghi viaggi il suo epifenomeno, il contorno aureo che lo rende inaccessibile alla veemenza dei cronisti, riservato, schivo, interpretabile solo dai tratti fisiognomici e dalle espressioni del viso: è l’uomo di successo, che ha collezionato solo vittorie e trionfi, che non ha nessun passivo di bilancio nella sua vita, ma solo voci in attivo. La sua biografia è senza macchia ed anche senza paura: Draghi non teme le critiche, non cerca le polemiche, è uomo delle grandi istituzioni bancarie, abituato tanto ai tempi brevi dei repentini cambi di umore delle borse, quanto ai tempi lunghi che trascorrono tra una fase di crisi del capitalismo e una fase di espansione.
La sua età, sinonimo di esperienza acclarata, ne fa il candidato perfetto non solo per il governo del Paese ma, magari tra un anno, per essere il successore di Mattarella al Quirinale. E’ il liberista perfetto, che schiva i sovranismi, parla democraticamente con tutti, riesce ad incastrare i puzzle più difficili e a risolvere le complicate intersecazioni della politica italiana, imponendosi come unica soluzione possibile e facendo ricadere questa opportunità sui partiti che vedono fermo alla stazione l’ultimo treno per rimanere in corsa.
La potenza della figura di Draghi è quella del self-made-man che dove ha agito, ha rimesso a posto conti, rapporti internazionali, finanze al disastro e salvato l’Euro da una crisi che altrimenti avrebbe aperto parecchie brecce nell’Unione Europea. Si spiega anche così il terremoto politico di questi giorni: i programmi sono importanti, ma le persone non lo sono da meno; soprattutto se si viene da trent’anni e più di personalizzazione estrema della vita politica del Paese, dove il leaderismo ha dominato la scena, relegando in secondo piano quelle ideologie che facevano emergere grandi personalità e grandi segretari di partito, ma che obbligavano a scegliere sulla base di una visione più ampia rispetto alla dialettica renziana o all’improvvisazione di piazza salviniana.
Mario Draghi non è nulla di tutto questo: riuscirà per un certo tempo a mantenere la fiducia immeritata anche di larga parte del mondo del lavoro, grazie al suo piglio autorevole, ma non autoritario. Da buon liberale, fedele alla Costituzione e ai princìpi del mercato ad un tempo, pianificherà il Recovery Fund gestendo la crisi delle imprese da tecnico dell’economia, da banchiere internazionale supplente una politica idisioncratica con le aspettative popolari, molto approssimativa nel prendere decisioni, dettate più dall’improvvisazione che dalla pianificazione. Sarebbero serviti dei valori condivisi: quei valori che PD e Cinquestelle non hanno in comune.
Dal compromesso tra pubblico e privato, dal rientro parziale dello Stato in alcuni settori strategici dell’economia, piccoli passi tentati dal Conte bis, si ritornerà a considerare la variabile dipendente dell’andamento dello spread come bussola risolutiva e impositiva delle politiche governative. Nessuna congiura internazionale o complotto dei “poteri forti“: soltanto un riassetto della rappresentanza istituzionale degli interessi privati cui saranno legati quelli pubblici, cessando di essere parte comprimaria. Un riformismo blandissimo che, però, aveva disturbato media e grande industria e finanza col prolungarsi di uno stato di crisi inaspettato.
Un giorno qualcuno studierà questa fase di passaggio epocale per la politica e la società italiana e forse scriverà che, in fondo, di altro non si è trattato se non di un aggiustamento strutturale del capitalismo europeo nei confronti di quello italiano: una resilienza economica che è stata accettata senza troppi tentennamenti tanto dalle forze della ex maggioranza quanto da quelle dell’opposizione. Al momento non sembrano trascurabili i movimenti tellurici interni ai Cinquestelle, perché è probabile che, a differenza di PD, Lega e Forza Italia, possano fratturare l’ultima pietra angolare, quella su cui era nato il movimento grillino: l’alterità senza se e senza ma nei confronti di Forza Italia, di Berlusconi e, più latamente, verso tutte la altre formazioni della politica italiana.
Quest’ultimo è un fronte di resistenza che si è aperto già da tempo, almeno fin dalla formazione del Conte uno con il “Contratto di governo” stipulato con la Lega. Ma la linea del Piave del M5S era, e doveva essere imperituramente, il non mescolarsi in nessun modo con politici pregiudicati, con condannati in via definitiva per evasione fiscale, con chi rappresentava enormi interessi sovranazionali che limitavano i diritti sociali della popolazione.
Se ciò per cui sei nato, cresciuto e maturato fino oltre il 32% dei consensi elettorali, è l’esatto opposto di ciò che ti ritrovi ad essere ora, non esistono molte soluzioni per dirimere la contraddizione del tutto evidente: invocare il sempre utile alibi della “natura delle cose“, dell’ineluttabilità degli eventi, della cause di forza maggiore frutto di un adeguamento pragmatico a ciò che accade; oppure ammettere che troppe parole altisonanti e vuote sono state riempite di populismo, euroscetticismo, decrescita felice e democrazia partecipata dal 2009 in avanti, creando aspettative di capovolgimento di una società che non si è mai veramente voluta rovesciare.
La presunta “rivoluzione grillina” finisce ben prima dell’avvento di Mario Draghi e dell’abbandono di Alessandro Di Battista, recitato molto bene dal tinello di casa. E’ una rivoluzione che non è mai cominciata, perché il Movimento 5 Stelle è sempre stato organico al sistema economico dominante, non ha mai voluto mettere in discussione i rapporti di forza economici, la proprietà privata dei mezzi di produzione, il modello di sviluppo (sic!) liberista. Ha tuonato comicamente contro la corruzione endemica della nostra politica, ha fatto battaglie più che giuste contro la deriva privatistica delle istituzioni, ma si è fermata a reclamare ciò che avrebbe dovuto essere ovvio e scontato: ossia che chiunque si appresti a fare politica lo faccia per rappresentare gli interessi comuni, per tutelare i beni comuni e non per servire i propri.
Se alla partenza dell’avventura del M5S si può concedere un pizzico di buona fede da parte dei gruppi dirigenti e un po’ di ingenuità in molti simpatizzanti, nel momento in cui viene a cadere la pregiudiziale di differenza esclusiva rispetto a tutte le altre forze politiche, ci si allea con Salvini e poi con il PD, Italia Viva e LeU, oltre a palesarsi tutta l’inconsistenza ideale dei pentastellati, non esistono più scuse per rendersi conto della perfetta compatibilità con il resto dell’agenda politica nazionale.
Magari il M5S continuerà a vivere di luce riflessa per qualche tempo; forse si trasformerà nel partito di Conte o forse no. Ma una cosa è ormai chiara e storicizzabile: non c’è mai stata nessuna rivoluzione pentastellata, perché non c’è mai stata nessuna rivoluzione da fare per i Cinquestelle. Dai meet up a Draghi, la ingloriosa parabola del Movimento è giunta all’atto finale. Sipario.
MARCO SFERINI
12 febbraio 2021
Foto di Andreas Glöckner da Pixabay