C’è una rivoluzione che di certo avverrà: quella del mondo del lavoro. Non si tratta del proletariato che, finalmente, si accorge del suo stato di sfruttamento e si rivolta capovolgendo i rapporti di forza e di potere attuali. Più modestamente, ma tuttavia con una discreta importanza sul piano sociale (che è bene non lasciarsi sfuggire dall’indagine e dallo studio), il rimescolamento delle carte sul terreno economico avverrà in tempi non brevi, spalmato su un decennio almeno.
Le spinte al cambio d’asse strategico dello sviluppo saranno quasi tutte fornite dai sommovimenti tellurici della pandemia che, per quanto si può vedere, è destinata a durare ben oltre il biennio in cui si sta esprimendo con tutta la sua forza ciclica di diffusione e di ridiffusione. Le stime dei grandi strilloni del padronato parlando di un cambio occupazionale che riguarderà 8 lavoratori su 10. Un mutamento veramente straordinario, esattamente “fuori dall’ordinario“, nel più coerente e compiuto senso del termine.
In generale si possono fare soltanto delle previsioni, ma alcune linee tendenziali sono già riscontrabili: da un lato si produrrà anche un certo risparmio di risorse, se si continuerà ad utilizzare la tecnologia per sopperire a tutta una serie di lavori “in presenza“; dall’altro governi nazionali e istituzioni continentali si attrezzeranno per gestire al meglio i contraccolpi di qualunque altro fenomeno pandemico del e nel futuro. Questo comporterà una espansione nel mercato della farmaceutica, un ammodernamento dei sistemi di prevenzione, partendo dall’organizzazione capillare della gestione di fenomeni globali (e locali) come quello che subiamo da oltre un anno.
L’esigenza del capitalismo del futuro sarà improntata a cautelarsi maggiormente da crisi improvvise, quelle che non provengono nemmeno dalle “bolle speculative” americane o da improvvise cadute tendenziali (nemmeno poi più tanto tali…) del saggio di profitto in stile tardo Ottocento e primo Novecento, bensì da una svalorizzazione improvvisa dei grandi accumuli di denaro causata da un ritrarsi della domanda che non segue le leggi della concorrenza tramite i flussi di merci, da continente a continente, ma che risponde ad una incalcolabile evenienza.
La pandemia da Covid-19, oltre a colpire una serie di settori multiproduttivi e inseriti in mercati molto più vasti dei singoli ambiti regionali o nazionali, ha obbligato le grandi organizzazioni di gestione delle crisi del sistema (FMI, Banca Mondiale e BCE tra le prime) a studiare a fondo dinamiche sconosciute: cause ed effetti che sono risultati più “anarchici” del mercato stesso.
Le prime analisi di questi istituti internazionali di controllo delle fluttuazioni economiche hanno riscontrato la mutabilità inevitabile dei lavori oggi attivi, la conversione di questi in altri modelli occupazioni e soprattutto, l’impossibilità di frenare la ricerca da parte dei salariati di nuove forme di sopravvivenza nella disperazione generale causata da un cataclisma epocale: il biennio pandemico.
Se si può parlare di “rivoluzione” nel mondo del lavoro, è evidente che lo si può fare facendo esclusivo riferimento ad una mutazione del tutto compatibile con le trasformazioni che il capitalismo stesso deciderà di accettare entro un determinato limite non valicabile: centinaia di milioni di lavoratrici e di lavoratori si sposteranno da una occupazione ad un’altra, cambieranno mestiere, si adatteranno alle circostanze e, forse, qualche volta proveranno anche a cercare migliori condizioni di vita, unendosi, rivendicando diritti ma entro un contesto liberista.
Si tratta, infatti, di analisi economiche più che politiche: ed infatti starebbe proprio alla politica fare specularmente ciò che FMI e soci stanno portando avanti alacremente. Studiare, capire la fase attuale, indagandola ogni giorno senza avere al momento la pretesa di formulare una teoria della rivoluzione comunista. Per carità! Troppe se ne sono accumulate nel tempo ed è bene che spariscano pure, per fare spazio ad una ritrovata capacità di analisi del contesto: partendo dalle cifre, dai dati, incrociandoli e osservando con grande attenzione dove si sposta la grande massa degli sfruttati.
Non sono soltanto i sondaggi elettorali a dare alla sinistra anticapitalista e di alternativa un quadro efficace della società che esige dei cambiamenti radicali. E’ soprattutto il riappropriarsi del metodo scientifico di analisi della fase a permetterci di guardare oltre il ristretto orizzonte meramente elettoralistico, per capire se ha ancora un senso o no una lotta contro le diseguaglianze.
Se ha senso, vista l’enorme disparità numerica tra arricchiti e impoveriti nella pandemia, tra nord e sud del mondo, tra est ed ovest e tra gli stessi paesi dell’Unione Europea, allora ciò significa che qualunque altra strada si intraprenda, per giustificare le prossime mosse tanto delle forze economiche a protezione del liberismo, quanto delle forze politiche a guardia del solito barile di privilegi delle classi dominanti, ci si avvierà su un percorso di accettazione, di passività riformista, di riduzionismo degli effetti devastanti che la “ripresa dell’economia” avrà sui miliardi di sfruttati attuali, cui si aggiungeranno centinaia di milioni di nuovi poveri.
Se la rivoluzione sarà la cifra dialettica della struttura produttiva del prossimo decennio, chi critica senza appello questo sistema economico dovrebbe attrezzarsi fin da subito per riorganizzare le masse di disperati che si accalcheranno ai bordi della ricerca di un nuovo modo per sopravvivere, sapendo bene che il divario tra la concentrazione delle grandi ricchezze aumenterà esponenzialmente e, nell’inverso proporzionale, così accadrà per un nuovo pauperismo inevitabile. Il rischio di una lotta interna alla classe dei salariati e di chi non detiene la proprietà dei mezzi di produzione, è una prospettiva non così strampalata e bislacca.
La prudenza che mostra oggi il governo Draghi nell’avvicendarsi al Conte bis, nel cambiare anche soltanto la gestione della crisi pandemica, è la lentezza di colui che con circospezione si guarda intorno, ascolta gli andamenti delle borse, dialoga con i grandi rappresentanti bancari mondiali e del Vecchio Continente per mettere in sicurezza i grandi capitali e intervenire su quelli molto minori al fine di creare una diga a tutto vantaggio dei primi, individuati – naturalmente – come quinta essenza della stabilità globale. Laddove invece tutto è instabile proprio a causa delle diseguaglianze antisociali causate dallo sviluppo ineguale, dal profittamento della crisi pandemica per pochi.
Non dobbiamo essere altrettanto cinici, diventare soltanto degli interpreti delle cifre: ma dobbiamo conoscere, avere chiaro l’oggi per progettare politicamente e socialmente un domani di lotta contro chi oggi ha lo sguardo lungo e pensa a quanto potrà guadagnare sulla pelle di miliardi di persone prive di ogni garanzia, di ogni tutela sanitaria e magari anche di una casa, del cibo…
MARCO SFERINI
28 febbraio 2021
Foto di Thomas Skirde da Pixabay