La vita, la difesa della vita, l’ipocrisia della seconda nei confronti della prima quando ad ergersi a paladini di una sacralità innata, eternamente intesa nel rapporto con il divino, col trascendentale, sono coloro che poi, in un melenso giustificazionismo fatto di realpolitik, si attribuiscono il merito dell’invio di armi nelle guerre in Europa e in molte altre parti del mondo.
La negazione della vita, la morte, l’orrore dei conflitti che seguono la tortuosa via di un diritto internazionale negato dai contendenti. Bambini che rimangono sotto le macerie. Migliaia. Ed altrettanti feriti, nei corpi che sanguinano, nell’animo, là dove l’invisibilità delle cicatrici rimane per sempre: solco implacabile di una memoria che puzza di bruciato, che odora di cemento impolverito.
Quelli che si fanno paladini della vita, diritto fra i diritti, inaliebanile, indiscutibile, proprietà di un dio che si richiama sempre a protezione degli eserciti e delle cause sante, delle moderne crociate terroristiche, degli attentati e delle stragi che fanno ombra alle democrazie, al vivere civile, ad una socialità diffusa, ad un comunitarismo dei valori che si disperde nel nulla eterno, tutti questi sono i difensori della fede e dell’esistenza.
Chi uccide, da migliaia di anni, lo fa nel nome dell’esatto opposto. Una contraddizione che sta pienamente dentro una storia dell’umanità in cui l’interesse economico, la sopravvivenza a scapito di altri, è il fulcro di un più generale attaccamento ai privilegi. Di classe, diremmo da duecento anni circa a questa parte. Ma lo si potrebbe riferire anche al rapporto tra schiavi e padroni, tra servi della gleba e feudatari, tra operai e industriali.
La violenza è connaturata nell’essere umano oltre il limite della difesa, della preservazione della specie. La violenza è strutturale, congenita, immanenza che non si scalfisce nel giro di qualche millennio. I tempi dell’evoluzione morale non seguono quelli del progresso della scienza. Più difficile della confutazione del sistema tolemaico è la deflagrazione dei preconcetti, di ogni singolo pregiudizio.
Perché la vita ne è ricca. E ne diviene ricchissima nel confronto tra le identità che, in quanto immateriali costrutti adattati al nostro essere civile, sociale e morale da una condizione economica più generale, si danno battaglia per affermare una supremazia che è indistintamente eccellenza e primazia tanto ideale quanto materiale. Primum vivere, deinde philosophari.
Sarebbe sufficiente questa massima, forse erroneamente attribuita a Thomas Hobbes, per riconoscere che a fondamento di tutto c’è sempre e soltanto l’interesse economico e che, comunque, dissertare, parlare, discutere, elucubrare, filosofeggiare e divertirsi anche nella teorizzazione di questo o quello fa parte di una dinamica umana essenziale alla formazione completa dell’individuo per sé stesso e nel contesto sociale.
La vita, dunque, come elemento di valutazione valoriale di un’etica generale sta al centro di qualunque discussione riguardi le nostre esperienze quotidiane.
La nostra morale diviene tale proprio perché intendiamo preservare il diritto alla vita per tutti. Ma forse, strada facendo, ci siamo dimenticati che, sovente, consideriamo degno di vivere solo quello che ci assomiglia o ci è più congeniali per i nostri scopi, mentre lasciamo decidere alla nostra volontà ciò che può essere trascurato in questo senso.
Chi dice di voler proteggere la vita in quanto espressione terrena, materiale e tangibile della volontà divina o di un principio regolatore dell’intero Universo, si dimentica che vita è praticamente tutto ciò che ha un metabolismo, che si esprime attraverso la sensibilità con i propri simili e con il resto che lo circonda.
Vita vegetale, vita animale, vita umana. Vita anche dell’energia che è, quasi al di là dello spazio-tempo, qualche attimo prima del Big Bang, la condizione primordiale per la formazione della materia, per la nascita di tutto ciò che ci è dato conoscere.
Se la vita è davvero così importante, ci dovremmo chiedere perché le contrapponiamo, ogni giorno, tante sofferenze gratuite, quindi generate da noi stessi, dalla nostra volontà e non subite attraverso inalienabili condizioni esterne che ci prescindono in tutto e per tutto.
Perché aggiungere un grammo di sofferenza in più a quella che giù ci tocca in sorte, che ci è data dall’essere qui, su questo pianeta, oggi e forse anche domani?
La sola spiegazione sulla strutturazione economica che fa dipendere da sé la maggior parte delle azioni umane, non è sufficiente a coprire la vastità di relazioni e interdipendenze che si creano ogni giorno sul pianeta nella tante differenze abissali che si sono sedimentate nel tempo da paese a paese, da popolo a popolo.
Il valore della vita sembra essere universale, uguale per tutti, ma in realtà soggiace ad una serie di precetti etici che vanno al di là della superiorità etica del principio di autoconservazione della specie.
Proprio in nome di ciò, col passare dei secoli la cultura europea ha imposto la sua visione dell’esistente, attribuendo alla morte il ruolo non finale di quello che siamo, ma di passaggio verso un’ultraterrenità, un’eternità che rimane pura speculazione teleologica sulla base del “divenire” di ogni cosa.
Così, le religioni hanno fatto della vita una variabile dipendente dall’interpretazione del volere divino: ovviamente creato dall’uomo e fatto ad immagine e somiglianza dell’essere umano stesso. La rivelazione delle molte parole di dio che sono state scritte, interpretate e largamente diffuse in tutti i continenti, è una operazione plurisecolare di radicamento del potere di una società su altre, di un potere su altri.
La morale è il frutto di tutto questo: è sempre e soltanto quella di chi prevale in quanto a rapporti di forza economici e, pertanto, sociali. La religione vi si affianca a volte, altre volte la dirige in concomitanza con l’evoluzione dei processi strutturali. Ed arriva al punto di condizionare largamente i processi decisionali che riguarderebbero una laicità tanto delle istituzioni quanto delle comunità che vi fanno riferimento.
Così tanto da divenire un alter ego del potere politico, impalmandosi con questo stesso per lunghi periodi della Storia, dando vita a teocrazie in cui non esiste la morale civile, il comportamento civile, la libertà civile, il diritto civile; esiste soltanto la morale religiosa, il comportamento religioso, la libertà data dai testi sacri e il diritto che ispira esclusivamente a questi stessi.
In un paese come l’Iran, ma anche come lo stesso Israele, così come in nazioni in cui il diritto si fonda su un’etica fondamentalista (che quindi si ispira ad una radicalizzazione di alcuni precetti e li rende universali soffocando il dissenso e reprimento al critca e le visioni alternative) tanto religiosa quanto apparentemente laica e democratica, popolare od oligarchica che si voglia dire, la libertà di vivere è quasi un ossimoro.
Si può esistere, ma il vivere, come espressione di una serie di particolari facoltà individuali nel consesso più generale e collettivo, è spesso dipendente da una conformità che diventa soffocante, che impedisce alle differenze di avere lo stesso valore delle uguaglianze che appiattiscono tutto e tutti.
Se si fosse trattato di paesi autocratici o teocratici, e non invece della liberale Gran Bretagna, il caso della piccola Indi avrebbe seguito iter molto differenti.
La considerazione della sofferenza, come discriminante essenziale per valutare il mantenimento in vita della bimba o il suo distacco dai supporti meccanici che la tengono al di qua del confine con la morte, avrebbe avuto un peso quasi ininfluente in culture in cui tutto tocca a dio e molto poco alla volontà umana.
Salvo poi tenere bene a mente che è la volontà umana che fa dire e fare a dio tutto quello che vuole.
La Chiesa cattolica, nel corso di duemila anni, ha adattato la dottrina dei valori di un Cristianesimo sempre più lontano, non solo nel tempo, dalla sua partenogenesi che affonda nella mitologia biblica di un ebraismo ante litteram, alle complesse evoluzioni di una umanità che è stata influenza soprattutto da parti del mondo in cui altri culti erano prevalsi autonomamente.
Quando, dal 1492, l’Europa conquista piano piano quasi tutto il mondo, il Cristianesimo diventa materia di esportazione, un prezioso alleato per quelle potenze che hanno bisogno di sostituire ai culti dei nativi una nuova credenza che si uniformi in tutto e per tutto ai princìpi su cui verte l’intera civiltà occidentale.
La sofferenza, quindi, diventa parte della vita e non qualcosa da limitare il più possibile. Certo, tanto la Chiesa di Roma quanto ebraismo e islamismo condannano tutte le forme di violenza che generano qualunque tipo di dolore, patimento, pena.
Ma, intrinsecamente, in quanto fenomeni ascetici, che quindi promettono la perfezione dell’esistenza, l’asetticità dal dolore e una pienazza di passioni depurate dalla corruzione della libido, sono portati a generare forme di intransigenza estrema, di assoluta aderenza al culto, senza cui è impossibile arrivare alla via, alla verità, alla vita eterna.
Il dolore come espiazione dei peccati, delle malefatte terrene, è giustificato. E lo è anche se prescinde dall’essere umano, dalla sua volontà. Lo è se sta dento una giustificazione che si vuole attribuire ad un disegno divino dogmaticamente imperscrutabile. Si soffre con ragione soltanto in questo perimetro di accettazione dell’inconoscibile, allontanando la più semplice delle spiegazioni scientifiche: siamo materia soggetta a mutazioni e non siamo indeteriorabili.
Per quanta paura ci possa fare la morte, la nostra finitudine, l’idea che siamo incasellati in una linea del tempo con due punti ben distinti di inizio e di termine, non possiamo fare della sofferenza qualcosa che non ci riguarda, evitando così di pensarla in quanto tale, per soffrire il meno possibile ma causando la sofferenza di altri.
Sulla base di princìpi etico-teologici dovremmo accettare che una bimba di otto mesi prosegua nella sua impossibile vita in cui avrà attacchi epilettici, convulsioni, spasmi che si avvicinano a torture vere e proprie per un corpicino di quelle dimensioni e per la non autonomia che ancora la riguarda?
Sulla base di che cosa dovrebbe la giustizia inglese accettare che Indi continui a soffrire, dopo che i medici hanno dichiarato che non esiste nessuna cura per la sua rarissima malattia, se non sul grado di sofferenza che la si costringe a patire?
Il dramma dei genitori è comprensibile. Ma la sofferenza non lo è. Il tentativo del governo italiano di fare di questo caso un emblema della lotta per la sacralità della vita è patetico. E’ un vero e proprio atto di propaganda mediatica, di interesse politico in un caso in cui etica e politica dovrebbero stare un passo indietro. Facile parlare anche per me che sto qui a scrivere. Ma questo posso fare.
La vita non è né giusta né ingiusta. E’ un dato di fatto. E non è come la vogliamo, ma possiamo migliorarla. Grazie alla ragione, grazie alla conoscenza, grazie alla scienza.
Grazie all’empatia, grazie ai sentimenti, grazie a tutte quelle sensazioni che non finiscono col diventare dogmi e trasformarsi quindi in cieca fede, in durezza dei concetti, in asetticità dei ragionamenti, slegati dal contesto, generalizzaati e, quindi, spersonalizzanti gli altri dopo aver depersonalizzato noi.
Esistere evitanto per quanto possibile qualunque tipo di sofferenza. Questo dovrebbe essere il punto universale di un principio veramente assoluto. L’unico accettabile. E per fare questo, mettere in pratica ogni rispetto delle idee, delle consuetudini, delle pratiche quotidiane. Vita ed uguaglianza vanno di pari passo. Ma uguaglianza nella differenza.
La sofferenza dovremmo risparmiarcela e farla risparmiare a più persone possibili che vengono in contatto con noi. L’astrattezza di queste parole sarà perdonata da chi legge. Non vuole essere retorica ma, anzi, intende essere quella semplicità che sta alla radice dell’essenza umana, per quanto sia ancora pensabile in quanto tale in mezzo a tanti interessi, a tante guerre che li rappresentano, a tante stragi che ne derivano.
Indi dovrebbe vivere senza soffrire. Ma questo è impossibile. La scelta tra la vita e la morte è una semplificazione cui tocca sottostare. Ma, più di tutto, si tratta della scelta tra la sofferenza senza fine e la fine della sofferenza.
MARCO SFERINI
11 novembre 2023
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