Il panico, almeno quello psicanaliticamente inteso, è un nostro alleato: arriva per farci conoscere aspetti della nostra vita che andrebbero mutati, cambiati radicalmente. Ci dice che siamo su una strada sbagliata e che ci facciamo del male da soli, che ci autoaffliggiamo con pensieri che parlano a noi stessi e che diventano quelle ossessioni che non ci abbandonano mai.
Il panico è un amico, mai un nemico.
Eppure, così come accade spesso con quello che genera nella nostra mente la “paura della paura” di fare qualcosa, di agire in qualche contesto, di muoverci in qualche situazione data, così, oggi, stiamo sperimentando un panico che esce dalla forma fobica e che è panico da isteria sociale, indotto dai mezzi di comunicazione di massa.
E’ il panico che genera le crisi di nervi se si vede un sacchetto nero abbandonato in terra magari vicino ad una stazione. Poco importa che sia soltanto un sacchetto con dentro della spazzatura indebitamente lasciato lì invece che debitamente riposto in un cassonetto.
Quel sacchetto nero, nero come il colore del Daesh, nero come l’impenetrabile, come l’angoscia ancestrale che ci prende da bambini quando abbiamo paura del buio, nero come i demoni che abitano le nostre anime con angosce, diventa il fenomeno visivo di una concretizzazione di nevrosi sviluppate da un ritmico imporsi di notizie che martellano le nostre menti.
Quel sacchetto nero fa scattare telefonate ai vigili del fuoco, alla polizia, ai carabinieri: “Aiuto, c’è un pacco sospetto!”, “Venite, c’è qualcosa di strano in quel sacchetto!”.
E così, solo nella giornata di ieri, 19 novembre dell’anno del signore 2015, in tutta Italia si sono registrate centinaia di allarmi bomba e allarmi attentati completamente infondati.
Non servono praticamente a nulla le raccomandazioni a non farsi prendere, appunto, dal panico: ancora una volta vince il terrore come elemento distruttivo della quotidianità di vita.
Giusto avere paura, ma non è possibile diventare noi stessi la quintessenza della paura e imperniare le nostre giornate sul muoverci con un sospetto continuo, incessante, guardandoci guardinghi rispetto a tutto ciò che è diverso da noi, inconsueto o mai visto prima.
Il gioco dell’amplificazione dei pregiudizi viene di seguito, del tutto spontaneamente e naturalmente.
Se prima non guardavamo con timore il venditore di rose che girava per il nostro quartiere, ora, chissà, potrebbe essere anche lui un mandante del Daesh e nascondere tra le poco profumate rose un detonatore con dell’esplosivo.
Paranoie, isterie, nevrosi e pregiudizi che le rinforzano e che a loro volta rinforzano la “paura della paura”.
Liberarsene vuol dire affrontare la vita con quella razionalità che non è cieco fatalismo, ma consapevolezza che tutto non è controllabile. Nemmeno i terremoti. Eppure non viviamo nel terrore che arrivino. Siamo, in quel caso, fatalisti: ci affidiamo alla benevolenza magari divina e speriamo che la terra non tremi, che un vulcano non erutti.
Così, il compito del governo e dei servizi di sicurezza è quello di proteggere la popolazione: il compito di quest’ultima è di vivere e di ragionare, di ragionare e dubitare, di dubitare e formarsi quella coscienza critica che deve smontare le bugie degli organi di informazione, degli stessi governi, del potere in generale.
Il nostro compito è, così, aprire una breccia grande nella menzogna quotidiana e fare controinformazione non solo per una sana politica di recupero delle idee e della verità, ma per vivere senza la paura elevata al quadrato.
MARCO SFERINI
20 novembre 2015
foto tratta da Pixabay