Una linea, una posizione, una determinazione politica o la si sconfigge altrettanto politicamente o ci si illude che, essendo la magistratura ad intervenire, il corso degli eventi possa radicalmente mutare e, magari, dare seguito ad un effetto a cascata in tutto il globo terracqueo.
L’incriminazione di Donald Trump da parte del Gran giurì di Manhattan è rilevante sul piano attualistico, di cogente interpretazione dell’oggi nella prospettiva velocissima di un domani elettorale e presidenziale americano di non certo poco conto.
Ma, se questo possa essere un inizio di crisi del fenomeno autocratico e sovranista, neonazionalista dai tratti violentemente autarchici, omofobi, xenofobi e razzisti, conservatori e tradizionalisti con tutti gli “anti” che si porta appresso (antiabortista, anticomunista, antifemminista, eccetera, eccetera), è davvero troppo presto per poterlo dire.
Di certo, Trump si può fregiare di un altro record negativo: è il primo ex presidente nella storia della Repubblica stellata ad essere incriminato. Si parla di almeno una trentina di capi di imputazione e, francamente, si spera in qualcosa di più sostanziale e determinante alla base della richiesta della procura newyorkese rispetto alla corruzione per 130.000 dollari della pornostar Stormy Daniels per metterla a tacere circa la relazione avuta col magnate.
Lo scandalo per Trump, al tempo in corsa per la presidenza, sarebbe stato qualcosa di diverso dal semplice ritmato chiacchiericcio giornalistico, dal gossip tipico dei tabloid del mondo anglosassone e pure yankee circa il tradimento della moglie e la frequentazione di una diva del porno. Per il mondo britannico e americano, comunque puritanissimo, è peggio non pagare le tasse mentire in merito.
Mentire in generale, ovvio, ma sulle tasse non si transige. I peccati nazionali del “Grande paese” sono millanta e di più ancora, ma per la giustizia fiscale e per i giuramenti c’è una sorta di codice della tradizione, non scritto eppure vigente nelle norme che perseguono quelli che, da semplici bugie, diventano spesso casi eclatanti di sfortuna certamente politica e poi pure familiare.
Chiaro che, se hai rubato la marmellata da piccolo, questo non inficerà la tua corsa verso la Casa Bianca. Ma se hai mentito, per esempio, sulle direttive delle operazioni militari in Viet Nam o hai creato una sorta di rete spionistica interna per impedire ai tuoi avversari di vincere le elezioni, allora le cose si complicano e la bugia diventa “di Stato” e non può essere un comportamento che un presidente può tenere prima, durante e neppure dopo il suo mandato.
Senza voler affatto minimizzare le colpe di Donald Trump, da accertare quelle giudiziarie, da riconsiderare attentamente quelle che lo riguardano tutt’ora nell’aver fomentato l’assalto a Capitol Hill per rovesciare il voto che elesse Joe Biden a suo tempo, vi è da considerare una sorta di connaturazione tra potere stesso e capovolgimento della realtà.
La propaganda governativa è parte integrante di un processo di costruzione di un consenso che cerca una sua costanza nel proporre ogni giorno gli atti della presidenza o dell’esecutivo stesso come dettati dal solo interesse comune.
Nelle cosiddette “democrazie liberali“, che abbiamo imparato a conoscere come estremizzazione negativa di un concetto (liberale) e trasmutazione altrettanto tale dell’altro (democrazia) nel suo esatto contrario, proprio perché nelle costituzioni medesime è inserita la dualità tra pubblico e privato, nonostante il primo riceva un certo vantaggio nella corsa al primato politico e sociale, l’azione del governo non potrà mai essere del tutto svincolata dalla considerazione dei rapporti di forza esistenti.
E, siccome questi determinano l’andamento tanto dell’economia nazionale quanto dei rapporti transnazionali e, oggi, veramente globali, non c’è governo che possa dirsi al riparo dal considerare più utile per la propria rielezione in blocco del favorire il privato rispetto al pubblico.
Gli USA sono, in questo, la patria delle privatizzazioni a tutto tondo, dell’esaltazione dell’iniziativa privata, del self made man che è il magister di questa impostazione veramente strutturale e connaturata al capitalismo liberista, ben prima ancora dell’inizio della stessa fase di sviluppo della grande industria e della produzione massiva dagli anni ’70 in poi del secolo scorso.
La rivoluzione di Donald Trump è consistita nel cercare di mettere all’angolo un timidissimo progressismo dei democratici per riportare in auge una destra conservatrice soltanto riguardo ad un tradizionalismo religioso e inculturale slegato da qualunque fenomeno sociale, ma vistosamente interclassista, finanziato da grandi gruppi di potere che hanno cercato in tutto questo la riproposizione unilaterale e univoca al tempo stesso degli Stati Uniti d’America come l’unica, vera, grande potenza mondiale del nuovo millennio.
Per avere il consenso delle masse, attraverso quel fastidioso accidente che si chiama “voto“, che si esprime nel consenso elettorale, della volontà di ogni singolo americano, Trump e i trumpiani hanno dovuto fare leva sui peggiori istinti repressi di un disagio economico diffusissimo: cominciando dalle tasse, dall’immigrazione, da ogni politica che espandeva i diritti in modo egualitario e che, quindi, provava a dare un profilo di progressività nel prelievo fiscale, nella contribuzione diseguale dei cittadini all’erario.
I democratici, a dire il vero, non hanno mai tentato una vera e propria inversione di tendenza in questo senso e, molto probabilmente, solo l’Obamacare, pur tra mille compromessi – anche qui – tra pubblico e privato, ha avuto modo di poter rifulgere meglio di altre riforme in considerazione di un orizzonte di garanzie sociali estese.
Il trumpismo è, al pari dei consolidati tentativi da parte delle destre sovraniste, nazionaliste e, nel caso italiano, sfacciatamente post-fasciste, una retrocessione politica di una America pronta ad essere autocrate mondiale, ad imporre oltre al suo stile di vita anche la sua morale iperpuritana, il suo pragmatismo bellico, il suo chiaro intendimento imperialista che, come risulta dalla guerra in Ucraina, si può esprimere benissimo anche con una amministrazione che dovrebbe essere l’esatto contrario della furia militarista repubblicana.
L’incriminazione dell’ex presidente, magnate senza limite, spregiudicato in ogni direzione economica, di politica tanto interna quanto estera, è un punto di non ritorno per quanto riguarda almeno l’accertamento di responsabilità fiscali che, tuttavia, potrebbero rivelarsi anche un sonoro boomerang in merito alle presidenziali del 2024.
La debolezza dell’amministrazione Biden è così evidente da essere facilmente scalzabile da un ritorno in pompa magna del furore di un Trump vittima di qualche complotto agitato come una clava contro la vera America che vorrebbe risorgere e che, invece, viene presa a schiaffi dalla magistratura. Ne sa qualcosa il procuratore di Manhattan che è subissato di anatemi, stigmatizzazioni di ogni tipo e vere e proprie minacce da parte dei seguaci indefessi del presidentissimo.
Da Twitter, intanto, proprio l’ex inquilino della Casa Bianca si fa sentire così: «Mai prima nella storia della nostra nazione è stato fatto questo (…). Armare il nostro sistema giudiziario per punire un avversario politico, che guarda caso è un ex presidente degli Stati Uniti e di gran lunga il principale candidato repubblicano alla presidenza, non è mai successo, mai». Tono duro ma pacato. Ci sarà tempo per dare fuoco alle polveri.
I patrioti dell'”America first” ricevono le prime imbeccate dallo staff trumpiano, dalle trasmissioni telematiche di Bannon al resto del circo che propaganda complottismi di ogni tipo.
La obnubilante scia del QAnonismo non è finita dispersa nell’aere. E’ ancora una delle leve su cui agire per confondere le acque, per impedire al vero progressismo di farsi avanti sia tra le compromissioni neoliberiste dei democratici sia tra l’apparato repressivo di un antisocialismo che è, anzitutto, forma di potere delle classi dominanti, delle classi agiate e del neocapitalismo.
La classe lavoratrice americana, l’apparato sindacale e i partiti della sinistra radicale e anticapitalista non rappresentano, se uniti, una minoranza trascurabile. Ma, questo è più che sicuro, sono visti come una minaccia ad un equilibrio interno al Partito democratico che, a sua volta, si situa nella conservazione di una alternanza più che storica, tutta fondata sulla preservazione del governo come esclusivo “comitato di affari” delle classi che guidano l’economia pubblica attraverso i condizionamenti della finanza privata.
Le lotte per la tutela della previdenza sociale, insieme a quelle contro le delocalizzazioni industriali, per un regime salariale quanto meno dignitoso, per una compatibilità tra sviluppo economico preservazione dell’ambiente, quelle contro il dilagare del razzismo, di un velo oscurantista sui diritti delle donne, primo fra tutti il diritto all’interruzione di gravidanza, sono tutti temi all’ordine del giorno di una sinistra di cui vi è davvero poca traccia tra i democratici.
Il Partito Comunista degli Stati Uniti d’America (CP-USA) ha denunciato il piano di salvataggio delle banche da parte della Federal Reserve con prestiti praticamente a tasso zero. La spregiudicatezza del liberismo la si ritrova nella dicotomia tra facilità di liquidità per i privati e assenza di finanziamenti per i settori pubblici più dirimenti per la vita quotidiana degli americani.
Da questa politica economica può trarre vantaggio soltanto la parte più di destra dello schieramento politico, nonostante Trump, con questi guai giudiziari che si ritrova tra capo e collo, possa assumere tutti i connotati del candidato meno favorito per parte repubblicana. Ma il boomerang torna sempre sul luogo da cui è stato lanciato… E se The Donald intende correre comunque alle primarie del suo partito per poi tornare alla Casa Bianca, chi potrà fermarlo veramente? La debolezza dei democratici, provati da quattro anni di balbettii governativi?
Diciamo che, quanto meno, è lecito dubitarne. I movimenti popolari non mancano. Manca una rete mondiale dell’alternativa sociale, dell’anticapitalismo vero e proprio, per strappare alle destre i consensi dei ceti più disagiati e riportare a sinistra la rabbia trasformandola in coscienza critica.
Può apparire un sogno, un οὐ τόπος (“u tópos” «non luogo», altrimenti detto “utopia“). E forse in parte lo è. Ma la realtà è un incubo al confronto. Un incubo da cui non si sfugge, che non si oltrepassa se non affrontandola. Anche in tempi lunghi, ma costruendo ogni giorno un pezzo in più di certezze su come evitare che, ciclicamente, ci si ritrovi a lottare per il mantenimento di diritti considerati troppo facilmente come dati di fatto, come acquisizioni incancellabili.
MARCO SFERINI
31 marzo 2023
Foto di Mary Pahlke da Pixabay