Il bilancio politico è di completo stallo: nessuno vince, quasi tutti perdono. Non vince Renzi, che non riesce a scalzare il governo, a far scattare la trappola che gli ha teso. Non vince Conte, che raggiunge una maggioranza posticcia, fatta di voti messi insieme per disperazione, senza un progetto politico rinnovato.
Non vincono i “costruttori”, frastagliati, dispersi in tante formazioni, privi di una figura egemone che li guidi verso la formazione di un nuovo gruppo al Senato che sostenga il governo e rassicuri il Quirinale sul prosieguo della Legislatura. E, infine, non vincono nemmeno le opposizioni di destra che perdono pezzi, si fermano a 140 voti e, oggettivamente, dimostrano di non avere una maggioranza alternativa a quella esistente.
La situazione, dunque, somiglia ad un limbo in cui giace un post-mortem del Conte 2 mentre non nasce un Conte 3: lo stallo è, pertanto, la migliore sintesi analitica che include una oggettiva debolezza del governo, l’inefficacia complessiva di un gesto avventuristico di Italia Viva che rischia un logoramento progressivo nella composizione parlamentare anzitutto e anche nell’alleanza col PSI di Nencini che ne aveva permesso la nascita in Gruppo autonomo proprio al Senato concedendo il suo simbolo come ragione regolamentare e giuridica richiesta e necessaria.
Ad una prima occhiata, la lunga giornata di Conte si risolve con una flessione del centro politico del Parlamento, con un’area liberale incerta sul da farsi, mentre più compatti risultano gli assi LeU-PD-Cinquestelle e Lega-Fratelli d’Italia, con il partito di Berlusconi e Tajani in grande sofferenza.
Qualche nostalgico degli equilibri e degli equilibrismi della cosiddetta “prima repubblica”, potrebbe con qualche ragione affermare che la partita in fondo si è sempre giocata e decisa al centro e mai ai lati estremi degli schieramenti e delle coalizioni. Sembra essere vero anche in questo caso: chi pena, chi soffre e si dibatte sono forze che si richiamano al moderatismo liberale centrista. Da Italia Viva all’UDC, da Forza Italia a Cambiamo e ad Azione di Calenda o al criticissimo voto contrario di Emma Bonino a nome di +Europa.
La crisi di governo, senza prescindere dalle mosse che già oggi saranno tentate per allargare la maggioranza virtualmente reale che si è ricreata al Senato, si è spostata dal campo esclusivo della maggioranza a quello più disomogeneo – ma non per questo meno interessante sul piano politico – della disarticolata platea di neo-centristi che guarderebbero con qualche favore alla nascita di una formazione che unisse non due, bensì tre dei grandi filoni cultural-politici classici, del resto citati da Conte stesso nel suo discorso al Senato: popolarismo, liberalismo e socialismo.
Ce n’è un po’ per tutti, per accontentare chi reclama una moderna idea di riformismo che non escluda nessuno tra coloro che hanno come unica discriminante il rapporto col nazionalismo sovranista.
E’ una idea che solletica sul piano progettuale le atomizzazioni centriste e centripete del Parlamento, mentre sul piano delle alleanze può puntare a mettere insieme – per ora – gli scontenti tanto di Italia Viva quanto di Forza Italia nel nome di un richiamo all’europeismo come casa comune di un fronte riformista che non sia sedotto dal populismo grillino o dai richiami di giustizia sociale di Liberi e Uguali e men che meno da quelli più netti della sinistra extraparlamentare.
Se ne ricava l’impressione di un grande rimescolamento di un mazzo di carte che sembrava messo bene a posto per truccare non una, ma molte partite. Invece, ancora una volta, i numeri del Senato diventano dirimenti per la soluzione di una crisi istituzionale che non fa cambiare rotta a nessun provvedimento “a-sociale” del governo; che non si rivolge dunque alla tutela di quegli interessi dei lavoratori così tanto sbandierati da Renzi e Bellanova nei loro interventi alla Camera Alta, ma che puntava prima, come operazione di ridisegnamento dei confini interni della maggioranza, e che punta oggi, dopo un fallimento facilmente prevedibile, a mostrarsi candidamente risolutrice di un immobilismo governativo inventato come pretesto di parte.
L’operazione di egocentrismo politico di Italia Viva e di Renzi si risolve in un nulla di fatto, in una nemesi storica per il “rottamatore“: dalla sconfitta plateale del dicembre 2016, con il referendum che pretendeva di escludere proprio il Senato della Repubblica dagli equilibri della democrazia parlamentare e dal rapporto di equipollenza con gli altri poteri dello Stato, alla sconfitta altrettanto plateale ma certamente meno impattante del gennaio 2021. Sarebbe bene evitare di perseverare nell’errore, di procurarsi una terza ammaccatura, perché potrebbe veramente poter essere l’ultima.
Se, oltre tutto, la maggioranza contiana riuscisse a consolidarsi al Senato, potrebbe trascinarsi, con il mortifero abbraccio da nume tutelare della pandemia, fino ad un 2023 che coinciderebbe – ormai sicuramente – con la fine dell’emergenza sanitaria, sotto una nuova Presidenza della Repubblica che avrebbe scampato il pericolo di qualche nome di estrema destra sovranista, portando quindi in dote all’elettorato una dimostrazione di presunta efficienza dal punto di vista organizzativo e anche da quello dei contenuti e dei futuri programmi di governo.
Sembra davvero però un avventurarsi troppo in un “deep space” veramente oscuro, ignoto e su cui si può solo fantasticare e quindi allontanarsi, improvvidamente, da una quotidianità che cambia repentinamente e che oggi, se la guardiamo in faccia, è un confronto tra due numeri uguali: 156 a 156.
Di certo c’è soltanto la fragilità di un esecutivo che esce indebolito da questa crisi e che proverà a vivacchiare, trascinandosi dietro una terza gamba liberal-centrista che faccia da compensazione alle altre linee e culture della maggioranza: magari senza le tentazioni di primazia di Italia Viva, un esperimento politico nato in contrasto non tanto con il PD quanto con una larga parte del Paese che, non è un mistero, non ama né da destra e tanto meno da sinistra la figura di Matteo Renzi.
Visto che il centro si riorganizza, forse sarebbe bene non stare a guardare le nuove manovre liberal-liberiste in campo; sarebbe bene riproporre una cultura sociale, criticamente tale, facendola penetrare nei sentimenti e nelle esigenze di una popolazione sempre più impoverita, sempre meno garantita nei diritti fondamentali. La sinistra di alternativa, i comunisti, gli ecologisti e quanti si riconoscono nell’anticapitalismo come necessità moderna per un vero progetto antiliberista, hanno il dovere di non attendere la fine della pandemia per ricostituire una visione empatica di società, con la società stessa cui vogliono fare rifermenti, con la classe dei tanti sfruttati che rivendichi apertamente i diritti sociali che le sono stati negati sino ad oggi.
Questo è un appello ricorrente, che viene spontaneo. Forse è ripetitivo, ma proprio per questo risulta sempre più urgente e necessario: non basta celebrare il Centenario della nascita del PCI per dirsi ed essere ancora comunisti. Lo si è se si fa qualcosa di concreto, non soltanto se ci si autocelebra come eredi di una grande storia che, proprio per questo, deve trovare una prosecuzione nell’oggi e nel domani.
MARCO SFERINI
20 gennaio 2021
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