Il nuovo centrodestra a trazione leghista dispone al senato esattamente degli stessi voti, 137, che sono serviti cinque anni fa al Pd e a Sel (con l’aggiunta di qualche grillino e qualche montiano) per eleggere alla presidenza Pietro Grasso. È da questa posizione di relativa forza che bisogna partire per immaginare la soluzione al rebus delle cariche di palazzo Madama e Montecitorio, il primo atto che aprirà e insieme indirizzerà la legislatura.
Per quanto teoricamente autonoma a palazzo Madama, la coalizione di centrodestra che ambisce a governare non può perdere l’occasione dell’elezione delle alte cariche per provare a costruire una maggioranza. Infatti per scegliere a chi affidare il primo incarico il capo dello stato sentirà come da prassi anche i due neo presidenti, ma soprattutto si ispirerà agli accordi che ne avranno consentito l’elezione. L’identico problema ha il Movimento 5 Stelle, e così entrambi i due grandi blocchi – il giallo grillino e il blu legaforzista che insieme occupano il 70% dei seggi sia alla camera che al senato – in questa fase di trattative lanciano segnali alla terza forza, il Pd. Offrendo un accordo.
Trattandosi di voti segreti, anche a far da solo il centrodestra potrebbe non andare lontano. Per la carica di presidente del senato si incrociano due ambizioni opposte. Quella del leghista Roberto Calderoli, già vicepresidente per tre legislature e grande esperto del regolamento e della conduzione dell’aula. E quella di Paolo Romani, esponente di quella Forza Italia che rivendica una distribuzione degli incarichi, visto che la Lega punta dritta a palazzo Chigi. Se invece fosse un 5 Stelle, il primo in lizza è Vito Crimi.
La prima seduta delle camere sarà venerdì 23 marzo, il senato è il ramo del parlamento che può risolvere più velocemente il rebus, sicuramente entro sabato. Il regolamento prevede il ballottaggio tra i due candidati più votati, se in tre scrutini non si è raggiunta la maggioranza assoluta (c’è un solo precedente, di ballottaggio, proprio quello di Grasso). Ma il senato è anche l’assemblea che dovrà affrontare il problema delle liste «incapienti» dei 5 Stelle in Sicilia. Per colpa delle pluricandidature e delle liste bloccate corte – e dei risultati travolgenti – i grillini hanno guadagnato un seggio in più di tutti i loro candidati sull’isola. È accaduto anche alla camera (e anche in Campania), ma la Costituzione – «il senato è eletto su base regionale» – impedisce che a palazzo Madama venga adottata la stessa soluzione che sarà presa per Montecitorio: promuovere in parlamento un grillino eletto in un’altra regione. E allora, a meno di non regalare il seggio di senatore al primo dei non eletti di Forza Italia nel collegio plurinominale Sicilia 02, la giunta delle elezioni del senato dovrà prendere la decisione di non assegnare quel seggio, abbassando a 314 il plenum degli eletti (più sei senatori di diritto e a vita). Gli uffici cominceranno a studiare il problema da oggi, ma è improbabile che la giunta provvisoria – composta dagli ex componenti rieletti, e quindi da tre senatori Pd, tre senatori M5S e due di centrodestra – possa assumersi la responsabilità di assegnare ad altri il seggio o di lasciarlo vacante: l’unico precedente riguarda la camera nel 2001 e allora non ci furono ostacoli a procedere all’elezione del presidente anche con un plenum incompleto di ben 13 seggi (che tale restò per tutta la legislatura).
Se 5 Stelle e centrodestra dovessero accordarsi per marciare uniti, disporrebbero dei numeri sufficienti per eleggere i presidenti al primo scrutinio, non solo al senato ma anche alla camera dove i primi tre quorum sono molto alti: i due terzi (420 voti). I 5 Stelle prenderebbero per loro la presidenza della camera, con Roberto Fico o nel caso prevalesse la scelta di una donna Paola Taverna. Ma se l’accordo tra il centrodestra unito e i grillini si deve escludere perché inutilizzabile dal punto di vista del governo, non resta che fare i calcoli sommando i voti del Movimento con quelli della sola Lega o del Pd: in entrambi i casi il quorum del senato sarebbe subito a portata di mano e quello della camera dal quarto scrutinio.
Il quarto scrutini, del resto, è quello con il quale si elegge la guida di Montecitorio dall’ultima legislatura della prima Repubblica, nel 1992, quando il quadripartito scelse Scalfaro, rimasto in carica pochi giorni prima di salire al Quirinale e lasciare il posto a Napolitano. Successivamente le leggi elettorali maggioritarie hanno rotto la prassi introdotta negli anni Settanta di una presidenza (la camera) affidata all’opposizione. Malgrado il ritorno al proporzionale è improbabile che la prassi venga adesso recuperata. Prima di pensare all’opposizione, i «vincitori» delle elezioni devono riuscire a trovare una maggioranza.
ANDREA FABOZZI
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