Sono passati più di tre anni da quell’ultima settimana di febbraio del 2020, quando la pandemia da Covid-19 irruppe nelle vite di noi tutti e ci costrinse a fare i conti con tutta la sprovvedutezza di cui eravamo disposti e con l’impreparazione delle istituzioni che avrebbero dovuto avere piani sanitari adeguati alla bisogna, risposte quasi immediate ad un problema certamente nuovo, eppure prevedibile anche se non nelle forme e nei tempi con cui si è presentato in tutta la sua vera e propria potenza deflagrante.
Oggi, tre anni e qualche mese dopo, ufficialmente la pandemia non è più tale.
La Covid-19 smette di essere una emergenza anche se rimane tra noi, come migliaia e migliaia di patogeni che ancora non hanno fatto il salto di specie, altri che sono in mutazione continua, altri ancora che, dai chiaroscuri del passato, ogni tanto riemergono quasi romanticamente e fanno ricordare come si affrontavano nei secoli scorsi le grandi afflizioni, le tragedie globali, le malattie che superavano ogni confine politico.
E dopo questi tre anni e qualche mese di pandemia a noi cosa rimane?
Venti milioni di morti sul pianeta, una sanità pressoché ovunque impreparata ad affrontare nuove emergenze, perché troppo poco si investe nella tutela della salute pubblica, perché le privatizzazioni e i profitti cui mirano sono al centro di una industria farmaceutica e di produzione scientifica e tecnologica di nuovi strumenti di cura che riguardano essenzialmente i dividendi aziendali e non soltanto – come sarebbe ragionevole che fosse nella missione prima della medicina – l’acquisizione sempre maggiore di sperimentazioni per la soluzione terapica di malattie croniche e incurabili.
Nonostante ciò la scienza progredisce, perché il metodo – a discapito anche del profitto – è una disciplina di studio e di ricerca che passa per quel viatico fondamentale che è la verifica di laboratorio, la somma di sempre maggiori informazioni che danno spunti per approfondire i casi, per elaborare nuove ipotesi e provarle, metterle a verifica in università e in ospedali dove, nonostante tutto, l’accrescimento del sapere rimane un obiettivo primario.
La pandemia, del resto, ha imposto una accelerazione in questo senso. Certo, anche sulla spinta di una legge delle concorrenza che ha portato le case farmaceutiche a farsi la guerra sui brevetti vaccinali, portando interi Stati ad un confronto nuovo nell’ambito di una globalizzazione pensata e vissuta soltanto dal punto di vista finanziario, turbocapitalistico e macroeconomico.
Ma, a dispetto delle tante fantasie di complotto che si sono autogenerate e alimentate nel corso del biennio pandemico, la scienza non si è mai completamente piegata al profitto e, anzi, ha preteso una autonomia di elaborazione, un momento di riflessione su sé stessa, per verificarsi in quanto a potenzialità proprio sul campo, direttamente nelle corsie dei nosocomi, a contatto primo con i malati che erano intubati, ricoperti dai caschi e isolati dalle loro vite lasciate dietro ai vetri dei reparti infettivi.
Riconoscere questo ruolo fondamentale dell’unità di azione tra primo intervento e studio di laboratorio, tra pronto soccorso, studio accademico e scientifico, è consegnare al presente e all’immediato futuro una fiducia che non deve venire meno solo per il fatto che il controllo dell’economia mondiale sia nelle mani di un pugno di affaristi senza scrupoli che perseguono il loro fine datogli dal ruolo che hanno nel capitalismo: fare profitti, incamerare capitali, sfruttare tutto quello che è possibili a questo scopo.
Chi ha confuso il condizionamento del sistema produttivo con i risultati ottenuti dalla scienza, ha finito, davvero inevitabilmente, per crearsi un brodo di coltura in cui leggere ogni cosa che accadeva, ogni annuncio ed ogni provvedimento preso per la tutela della salute pubblica, come un tentativo di sempre maggiore controllo della popolazione mondiale da parte del capitalismo stesso, dei grandi profittatori e affaristi, inventando teorie fantastiche e complotti internazionali mai esistiti.
Forse queste immaginazioni sono servite per avere un nemico ulteriore, forse sostitutivo della Covid-19, per esorcizzare un timore, una paura grande di essere dentro ad un terremoto sociale, economico e anche politico molto più grande di quelli visti fino ad allora.
O, forse, tralasciando interpretazioni fuorvianti, ispirate ad una psicologia spicciola e imperdonabile agli occhi dei veri studiosi della mente e dell’animo umano (la ψυχή (psyché) – in senso piuttosto stretto), ci siamo trovati davanti ad una verifica della sopravvalutazione ennesima del genere umano e della sua presunta fortezza davanti alle avversità naturali.
Sia quel che sia, oggi possiamo dire che la maggioranza assoluta dei popoli ha interpretato anche e giustamente in modo critico certi indirizzi governativi di contenimento della pandemia, così come ha preso con le pinze i protocolli di cura, ma al contempo ha avuto fiducia nella scienza, nonostante tutti i condizionamenti dell’economia di mercato, del capitale e del regime del profitto.
In questo quadro complessivo di disfacimento sociale che viviamo anche odiernamente, nello sfilacciamento di un tessuto connettivo tra bisogni diversi, ma con la stessa matrice originaria che affonda nello sfruttamento dei più poveri, la pandemia ci ha reso uguali nella condivisione del problema immediato ma, immediatamente dopo, ci ha mostrato tutte le ambiguità e le carenze di un sistema inadeguato a sopportare eventi di portata globale, nonostante sia esso stesso la quinta essenza di ogni globalizzazione oggi immaginabile e sopportabile.
Chi ha approfittato della disperazione e della completa inadeguatezza di risposta alla pandemia sono state quelle aziende che hanno persino convertito le loro produzioni, investito nell’aggiornamento delle filiere produttive, nell’aggiornamento del personale e dei macchinari come non avevano mai fatto, intravvedendo profitti galattici, letteralmente stellari.
Era ovvio che dovesse essere così, perché le leggi del capitale sono queste: la concorrenza le disarmonizza così tanto da renderle stabili per determinati periodi. E maggiore incertezza e insicurezza regna fuori, più i profittatori sono a loro agio.
Ma la Scienza, quella con la esse maiuscola, quella che è patrimonio conoscitivo dell’umanità, perché dall’umanità proviene e continua ad alimentarsi in un processo di acquisizione di sempre maggiori informazioni al fine di offrire soluzioni nuovissime ed efficaci a malattie vecchissime che ci affliggono, non può essere considerata una serva sciocca del capitalismo. Vive, come tutte e tutti noi, dentro questo sistema e deve obbedire anche lei ad una serie di parametri cui non può sfuggire se vuole continuare ad assolvere il compito che le è proprio.
E’ il tributo che tocca pagare per essere, se non liberi, almeno parzialmente autonomi nello stabilire i perimetri di intangibilità tra ricerca e condizionamento privato ineludibile. E’ un compromesso che gli scienziati accettano per poter avanzare nelle loro sperimentazioni, per far entrare un grammo di benessere in un capitalismo amorale, quindi privo di qualunque empatia nei confronti di chi lo subisce e viene, invece, descritto come il fruitore di un meraviglioso, modernissimo mondo che guarda al futuro.
E’ proprio per questo che le fantasie di complotto, le strumentalizzazioni delle proteste contro le mascherine prima, le restrizioni casalinghe poi, il green pass ancora dopo, hanno il maleodore di una ingenuità ingiustificabile: tante persone si sono abbandonate ad un egoismo dei diritti che nuoce ai diritti stessi, abbandonando i doveri al caso, lasciando ad altri, alla grande maggioranza delle persone, considerate per questo dei servi del sistema, degli obnubilati senza ritegno, il compito di adempiere al compromesso, di sopportare oltremodo le misure necessarie ad una tutela della salute di tutte e tutti.
I no-mask e i no vax, sebbene identificabili in larga parte anche con i no-green pass, si sono lasciati irretire da una serie di vere e proprie invenzioni che, se non sono da meno delle trame del capitalismo per controllare un mondo che ha già nelle sue mani da secoli, equivalgono ad un sostegno indiretto a quella divisione sociale che è da sempre uno dei pilastri di forza delle classi dirigenti: divide et impera. Una critica ragionata delle implicazioni economiche e finanziarie nella formulazione, distribuzione e fruizione dei vaccini non poteva esimersi dall’affiancarsi ad una presa di consapevolezza del problema pandemico.
Chi ha negato ieri la veridicità scientifica del coronavirus, la sua diffusione planetaria e, in Europa, per prima in Italia, chi ha pensato che nelle bare che sfilavano sui camion dell’esercito non vi fosse nessuno o che nelle ambulanze si ripetesse questa ipotetica pantomima, facendole girare a vuoto per creare il panico tra la popolazione e un regime quindi da “dittatura sanitaria“, chi ha pensato tutto questo oggi può tranquillamente ritenere improbabile, forse pure questo un complotto mondiale, la crisi ambientale globale e il punto di non ritorno cui stiamo andando incontro.
La pandemia ha mostrato tutto ciò che ci servirebbe al posto di ciò che c’è: una sanità pubblica, una disponibilità di cura per tutte e per tutti, un ritorno ad un vero e proprio servizio sanitario nazionale. Invece si va nella direzione opposta, nella regionalizzazione esasperata delle competenze istituzionali, nello spacchettamento dei diritti, nella distribuzione ineguale pure dei doveri.
Sono questi i veri complotti che vanno combattuti, socialmente, politicamente e pure culturalmente. Perché la Repubblica non è soltanto una idea astratta, una forma mentis cui sottoporre una interpretazione del reale secondo dei canoni prestabiliti. E’ prima di tutto una comunità che si riconosce nella difesa di sé stessa: il collettivo che protegge il singolo e viceversa. Gli svizzeri ne hanno fatto un motto perenne che ricorda i moschettieri di Dumas: “Unus pro omnibus, omnes pro uno“.
A questo avremmo dovuto attenerci nel biennio pandemico: ad una solidarietà condivisa e non solo immaginata da chi, alla fine, ha preferito creare il disordine, il caos, alimentare paure consce ed inconsce, fare leva sulle debolezze che ognuno di noi può avere e incanalarle in una protesta fine a sé stessa, eterodiretta in particolare da elementi di destra neofascista, populisti dell’ultima ora, fomentatori di una destabilizzazione antisociale, rimestatori nel torbido delle tensioni più esasperate.
Il salto di qualità che serve, per unire scienza e società, sottraendole all’abbraccio fintamente docile e consolatorio del sistema capitalistico, è fare della critica un elemento prezioso e non dispensabile a buone mani, nutrendola di qualunque ipotesi, di qualunque asserzione capiti sotto il primo scritto o commento da social network. Il salto di qualità è la centellinazione del dubbio come pratica preziosa, come capacità di discernimento ulteriore e non come fondamento di teorie cospirazioniste.
Il dubbio affidato ad una critica ragionata, che tiene conto dei rapporti di forza sociali e di quelli economici, può essere un utilissimo alleato. Della scienza e dell’umanità. Altrimenti finisce con l’essere se non il primo, certamente un altro nemico di noi stessi, della lucidità e della presenza di spirito per affrontare i tanti inganni che ci vengono proposti sotto forma di politiche fatte per il “bene comune“.
MARCO SFERINI
6 maggio 2023
Foto di SHVETS production