La nuova lunga notte dell’Afghanistan

Quello che sta accadendo in Afghanistan in questi giorni, lo capiremo non tra qualche settimana ma, probabilmente, tra qualche anno. I tempi della Storia sono a volte brevi, quando...

Quello che sta accadendo in Afghanistan in questi giorni, lo capiremo non tra qualche settimana ma, probabilmente, tra qualche anno. I tempi della Storia sono a volte brevi, quando si tratta di accadimenti che rivoluzionano improvvisamente tutto un certo mondo che pareva strutturato o che pareva aver voltato pagina; altre volte sono lunghissimi, quando invece si deve mettere mano ad immagini, testi, documenti e testimonianze che, alla fine, diventano il quadro di insieme che permette la lettura oggettiva dei fatti e l’interpretazione di natura politica, economica, sociologica.

A partire dal maggio scorso abbiamo assistito: all’evacuazione delle truppe americane, al ritiro di tutti i contingenti militari della NATO, alla chiusura del capitolo ventennale di una guerra che ha fatto più di 240.000 morti, dilaniati delle pallottole dei kalashnikov, dalle mine antiuomo, da quelle a grappolo, dai droni che fanno stragi di civili quando non centrano l’obiettivo “chirurgico” loro affidato… Una ecatombe, un massacro, una scia di sangue lunghissima che doveva portare alla fondazione di quella repubblica democratica afghana (nome che avrebbe riecheggiato quella di impronta comunista guidata da Nur Taraki dopo la Rivoluzione di Saur) che avrebbe sostituito il regime totalitario – religioso dei Talebani.

Trecento miliardi di dollari spesi dagli USA in una guerra imperialista, che ha permesso a Washington di posizionarsi strategicamente nell’Asia centrale, di mettere una sentinella alle spalle dell’Iran e di frapporsi tra il Medio Oriente e la crescente potenza cinese. Credere che gli americani abbiano fatto la guerra solo per cercare Osama bin Laden e il mullah Omar, per vendicare le vittime delle Twin Towers, per “esportare la democrazia” sarebbe fare torto non tanto alla Storia (sempre con la esse maiuscola) ma prima di tutto all’intelligenza critica di ognuno di noi.

Oggi noi guardiamo le immagini di un popolo disperato, che si arrampica sui grandi aerei militari americani che partono dall’aeroporto di Kabul. E’ il panico: si arrampicano sugli scaloni di imbarco, si stringono ai carrelli delle ruote e non lasciano la presa nemmeno quando i giganti alate si sollevano da terra e, impietosamente, con l’indifferenza dell’impotenza e con il cinismo del darsela a gambe prima dell’arrivo delle milizie talebane anche lì, non si accorgono nemmeno che uno, due, tre, quattro, cinque uomini precipitano al suolo. L’accostamento figurativo e nemesitico riporta immediatamente a chi si lanciava dalle torri in fiamme a New York. Una vera e propria vendetta nella vendetta, da attribuire non si sa bene a chi e a che cosa…

Tra qualche anno, si diceva, sapremo analizzare bene queste giornate convulse. Eppure stiamo cadendo nel tranello di considerare quando avviene in Afghanistan nell’agosto 2021 come se non fossero passati vent’anni, come se quella terra fosse ancora piena delle contraddizioni che viveva allora: gli stessi Talebani non sono più quelli di un tempo; ciò non significa che siano né migliori e né peggiori, anche se a peggiorare si fa meno fatica che a migliorare.

Cosa sappiamo noi, oggi, di questi nuovi fondatori dell’Emirato islamico? Intanto che non sono più guidati dai capi di un tempo: il mullah Omar è morto in circostanze mai chiarite e, tra l’attacco agli USA, la fine di bin Laden e la presidenza Trump, c’è stato di mezzo un Isis che ha sparigliato tutte le carte, ricalibrato le distanze tra i diversi gruppi della galassia jihadista: talvolta le ha accorciate, semplificando i rapporti nella tendenza atomizzatrice di un tribalismo di posizioni politiche fortemente personalistiche, legate al culto del “signore della guerra” e “della terra” di turno.

Per tanti anni, giornali, televisioni e Internet ci hanno raccontato che, con la vittoria della coalizione americana e la fuga in motoretta del mullah Omar, tutto – almeno sul fronte della guerra propriamente detta e combattuta – era finito e che rimanevano soltanto alcune sacche di resistenza. Un po’ come i nazisti accerchiati nelle città polacche via via liberate dall’Armata Rossa nel 1945.

Peccato che, smentendo ogni ricostruzione e fotografia geopolitica protrattasi nel tempo, i Talebani siano sempre stati presenti almeno nel sud dell’Afghanistan e anche in forze. Lo sapevano tutti: dagli italiani presenti ad Herat agli americani, dai tedeschi agli inglesi. Ma la vulgata ufficiale doveva essere quella dell’affiancamento nella ricostruzione di un paese devastato, poverissimo e capace solamente di commerciare in oppio. Campi e campi di papaveri per un giro d’affari miliardiario. Poi oleodotti, gasdotti e quella posizione strategica nella nuova “via della seta” che da Pechino arriva fino in Europa…

La golosità imperialista americana è stata appagata nel corso di due decenni. Ed ora che è stato spolpato per bene, si può abbandonare Kabul al suo destino e lasciare che venga regalata ai Talebani, che vi entrano dopo aver certamente siglato degli accordi con i signorotti che controllano le bande armate tutte intorno alla capitale. Agli accordi di Doha ne vanno sommati altri, non ufficiali, che hanno permesso agli studenti coranici di arrivare fin dentro il palazzo presidenziale e issare la Shahādah sulla torre. La bandiera bianca, non in segno di resa questa volta, ma di vittoria. La bandiera bianca con sopra scritti i cinque pilastri dell’Islam.

All’aeroporto di Kabul si muore cadendo dagli aerei del “si salvi chi può“, oppure uccisi dalle pallottole “amiche” degli americani che cercano di contenere la folla. Si sentono le urla contro i soldati a stelle e strisce: «Traditori!». I Talebani stanno già compilando le liste di proscrizione, chiudono emittenti radiofoniche e televisive in ogni parte del Paese e, come primo simbolico segnale di rivincita, come comunicazione anche politica muta ma molto forte nell’impatto visivo, entrano nell’università e occupano il palazzo di Tolo News, la più importante tv nazionale.

Sapere e informazione nuovamente in mano al totalitarismo religioso, mentre le truppe occidentali fuggono, mettono in salvo tutti i loro collaboratori e ne lasciano tanti altri alla mercé della rappresaglia del nuovo regime.

Eccola la storia, con la esse minuscola, un po’ cronaca e un po’ analisi del limitato campo visivo dell’oggi e dell’ieri. Per ora è un collage di immagini, suoni, volti, messaggi sui social da canali ufficiali di quelli che un tempo avremmo definito terroristi, e che per vent’anni siamo stati abituati a ritenere come immutabili, imperturbabili in questa loro funzione criminale; mentre l’America, pur in mano ai sovranisti trumpiani, campava del proprio ammanto democratico quasi innato, ancestrale, mitologico.

Invece i Talebani oggi sono interlocutori tanto di Pechino quanto di Mosca, di quella parte di mondo che rivaleggia con gli Stati Uniti d’America e che contende loro il primato economico e politico su grandi aree del pianeta tutte da sfruttare per espandere un capitalismo liberista a sempre più alto tasso di defraudazione dei diritti sociali. I Talebani – si sente dire – cercano un accordo con le altre fazioni afghane per formare un governo non monocolore e monopartitico. Provano a dare al mondo una immagine di sé altra dalla narrazione comune, consueta e stereotipata cui siamo stati abituati in due decenni di menzogne.

Probabilmente sono gli stessi tagliagole sanguinari di vent’anni fa, in quanto ad istinti legati ad un credo religioso-politico assolutista e terrorista, misogino e patriarcale, omofobo e negatore di qualunque idea altra che non provenga dai dettami coranici da loro interpretati con voluta distorsione. Ma adesso lanciano proclami che invitano alla calma, alla tutela dei cittadini, al rispetto delle proprietà e persino dei diritti umani. Un paradosso reale, un tentativo di circonvenzione della capacità di saper ancora distinguere tra propaganda politica e propaganda di fede. Quale sia il confine tra le due in Afghanistan, oggi è sempre più difficile dirlo.

Dopo vent’anni, dopo la guerra e dopo l’occupazione occidentale, i Talebani hanno imparato a muoversi nello scacchiere internazionale: siedono ai tavoli degli accordi ufficiali e non sono giovani vestiti di cenci e armati di mitra o di bombe a mano. Sono ben vestiti, cercano di accreditarsi come interlocutori affidabili perché non vogliono rimanere nuovamente isolati e sanno di poter sfruttare le divisioni tra i blocchi imperialisti della nuova globalizzazione. Meglio di quanto potessero immaginare e sperare.

Il nuovo corso, comunque, tradisce le aspettative delle giovani generazioni, dei ventenni nati mentre le Torri gemelle implodevano su loro stesse, mentre Bush lanciava la crociata contro il terrore e gli intellettuali lo seguivano, spaventati dalla minaccia jihadista. Solo i comunisti, anche in Italia, dissero “NO” a quella guerra. Lo dissero in un parlamento che somiglia molto a quello di oggi: una “unità nazionale” contro il terrore di bin Laden allora, un’altra oggi contro il Covid-19.

Centrodestra e centrosinistra furono uniti nel chiamare alle armi l’Italia, sotto la bandiera della NATO e sotto il comando americano, per sostenere lo sforzo bellico contro un regime che aveva distrutto i Buddha di Bamiyan, che aveva costretto le donne a mettere il burka integrale e che sosteneva pienamente la rete di Al Qaeda.

Vent’anni dopo il bilancio è impietoso. Dà ragione ai comunisti e agli ecologisti di allora e di oggi, ma non è di alcuna consolazione sapere di aver individuato per tempo, ancora una volta, tutto il portato di interessi economici legati all'”esportazione della democrazia“. La vigliaccheria occidentale era allora supportata da una riscrittura della geopolitica mondiale. La vigliaccheria occidentale oggi è, invece, due volte più codarda e cinica, perché dichiara – parola di Joe Biden – che là, a Kabul, ad Herat, a Jalalabad e Kandahar né il governo della Repubblica stellata, né il suo braccio militare hanno mai pensato di sostenere la ricostruzione dell’Afghanistan.

Cercando di arginare le polemiche che da ogni parte gli si levano contro, il presidente democratico chiude così ad ogni obiezione: «Non combattiamo una guerra che gli afghani non vogliono combattere». E, se proprio ancora non è chiara tutta la strumentalizzazione delle belle parole, “democrazia“, “libertà” e “umanità“, usate per giustificare l’orrore della guerra prima e la fuga dall’Afghanistan oggi, basta citare le parole di un ex collaboratore di George W. Bush, al quale scriveva i discorsi: «La politica di Biden è sostanzialmente quella di Trump, con qualche bugia in meno» (David Frum).

Buona notte, Kabul.

MARCO SFERINI

17 agosto 2021

foto: screenshot

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