Anche chi non è sindacalista, chi politicamente non è di sinistra, chi poi – tanto meno – è comunista, ma una semplice persona di buon senso che magari ogni tanto legge qualche giornale o guarda Rai 3 o La7, Rai News 24 o Sky Tg 24, capirà che Confindustria chiede, nel nome della salvezza dell’economia (genericamente intesa), provvedimenti che vanno esclusivamente a vantaggio del profitto dei suoi imprenditori (padroni) aderenti e non certo del benessere comune.
Stiamo parlando di una specie di sindacato che non è di categoria, ma di classe, come del resto di classe dovrebbero essere i sindacati propriamente detti: CGIL, CISL e UIL. Funzionerebbe così: siccome gli interessi dei lavoratori sono esattamente contrapposti a quelli degli imprenditori che ne comperano la forza-lavoro e la sfruttano a più non posso, è evidente che se Confindustria dice “A“, i sindacati non devono dire “B“, ma proprio l’ultima lettera dell’alfabeto, quella che ne è l’esatto contrario, la “Z“. Alfa e omega, in pratica.
Invece, da troppo tempo, anche il sindacato si è abituato, grazie alle politiche concertative, ad una visione ecumenica degli interessi sociali che dovrebbero, in qualche modo, venire incontro alle esigenze del privato. Se non fosse molto chiaro, è bene ricordare che nel mondo in cui viviamo la produzione della ricchezza, di tutte le merci che circolano, è frutto del lavoro degli operai e dei lavoratori di tutte le categorie, ma il valore intrinseco in queste merci non appartiene a chi le produce, ma bensì al padrone (imprenditore) che le fa costruire nella “sua” fabbrica.
La proprietà privata dei mezzi di produzione, esiste e non viene più messa in discussione da nessuna sinistra che si trovi al governo: moderata o meno che sia. Il vero riformismo che cancella ogni alternativa di società sta proprio in questo cedimento (ammesso che davvero sia tale) alla logica del mercato, del profitto privato, della crescita economica fondata sull’espansione dei dividendi aziendali agli azionisti di turno. Ai lavoratori restano le briciole di salari che sono la paga per niente equa rispetto alle ore di lavoro che necessariamente hanno dovuto impiegare per produrre una merce.
La proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine anno, chiesta opportunamente dai sindacati dei lavoratori con un coro pressoché unanime, è una misura necessaria per permettere ad una visione dell’economia che tuteli per primi coloro che veramente producono a continuare a produrre (per altri) e quindi, tramite il lavoro regalato ai padroni, potersi anche mantenere e sostenere così le rispettive famiglie.
Perché mai i padroni (imprenditori) dovrebbero essere esentati dal pagamento dei contributi per sei mesi, da tagli fiscali di ampia importanza nel nome della crisi pandemica mentre i lavoratori dovrebbero essere messi nella condizione della massima incertezza, di non sapere se il loro posto di lavoro sarà garantito oppure no?
La risposta è semplice: perché la proprietà privata delle aziende lo permette. Perché la cosiddetta “legge dello sviluppo ineguale e combinato” fa oscillare nel capitalismo l’andamento dei rapporti di forza dietro un molteplice incontro di variabili che determinano ora l’avanzamento e ora l’arretramento dei diritti sociali della classe lavoratrice, del moderno proletariato incosciente di essere la base su cui si fonda l’intero sviluppo economico non solo di un Paese, bensì del mondo intero.
La classe dominante è quella degli imprenditori (padroni), ma la classe che crea ricchezza è quella che non possiede alcun mezzo di produzione, che viene comperata dal capitalista come una qualsiasi merce e che viene utilizzata per creare quel famoso “plusvalore” che Marx ed Engels avevano intuito esistesse e avevano alla fine scoperto dietro tanti orpelli ideologici tramandati da una filosofia della misera che finì per essere bollata dal Moro come “miseria della filosofia“.
Perdonate l’intreccio tra reminiscenze di critica dell’economia politica, di teoria economica marxiana e un oggi dove il governo Conte bis si divide proprio sul blocco dei licenziamenti a causa della pandemia. Ma prepotentemente torna in evidenza proprio lo scontro di classe in un momento storico in cui la messa in discussione delle solide certezze dell’economia padronale si fa sempre più evidente: dalle parole del presidente degli industriali, alla minaccia di sciopero generale da parte dei sindacati.
Dovrebbe saltare agli occhi che non si tratta solamente della semplice difesa delle posizioni acquisite da entrambe le classi sociali, ma semmai di una contrapposizione tra due visioni letteralmente opposte dell’economia e del suo impiego strategico: a favore esclusivamente dell’accrescimento dei profitti privati dei padroni o anche della parte produttiva vera e propria, delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari ipersfruttati e di quanti sono dimenticati nel purgatorio dell’inoccupazione, della disoccupazione permanente e di lungo corso?
Confindustria sostiene che il prolungamento del blocco dei licenziamenti costringerebbe le imprese a fare comunque scelte drastiche una volta terminato il periodo di emergenza: sembra più una minaccia rispetto ad un atto di conteggio economico privato.
Si tenta, da parte dell’associazione degli industriali, di risolvere il problema della crisi economica, unitamente a quella sanitaria, come se fossimo innanzi ad una “particolarità nazionale“, astraendo il tutto da un contesto globale in cui la stessa pandemia ci ha gettato e dal quale verremo fuori in tempi veramente molto lunghi.
George Novack, che studiò a fondo proprio i limiti delle cosiddette “particolarità nazionali“, osservò che nel corso di crisi sistemiche – frutto di quello “sviluppo ineguale” che ho citato pochi capoversi sopra – come quella del 1929, che investì l’emergente potenza continentale (e mondiale) rappresentata dagli Stati Uniti d’America, erano frutto non soltanto della contingenza dei rapporti di forza del momento ma di un retroterra combinato di dinamiche sociali, politiche ed economiche che datavano ben oltre il singolo evento anche pluriennalmente definito nel suo spazio temporale e nei suoi effetti conseguenti.
Questo significa che la crisi padronale della gestione dell’economia attuale non può essere assunta da Confindustria come frutto di due mesi di quarantena e di chiusura totale. Sarebbe fare torto persino all’intelligenza dei padroni, quanto degli economisti liberisti che li sostengono dalle pagine dei quotidiani più importanti, ritenere che loro stessi pensino in tutta sincerità che la flessione dei profitti e il rischio di chiusura di un 30% delle aziende italiane sia causato dal Covid-19.
C’è un grande alibi che ne contiene tanti di minore portata: questo grande alibi è la nuova scenografia delle lacrime di coccodrillo degli squali di Confindustria che possono tentare di far passare per disgrazia ciò che invece è frutto della loro cattiva gestione, dell’abuso della forza-lavoro operaia, dei tanti morti sul lavoro che si contano ogni giorno e che ad altro non sono attribuibili se non al sempre più scarso impiego di risorse nel rafforzamento della sicurezza nei cantieri e in ogni posto di lavoro.
Analisti ed esperti di macroeconomia sostengono queste tesi liberiste, che gettano sul lavoro dipendente ogni responsabilità dell’affanno antiproduttivo per le imprese: consentire alle imprese di “poter lavorare di più” mediante libertà di licenziamento già da subito. Tradotto socialmente, significherebbe autorizzare un taglio occupazionale di vasta portata, moralmente giustificato dal Covid-19, in realtà utile per sfruttare una occasione veramente storica: evitare il contraccolpo della contrazione produttiva da pandemia rifacendosi, senza troppe rivendicazioni sindacali, alla necessità di continuare una produzione sostenibile con l’attuale riduzione della domanda, dentro al più ampio regime concorrenziale transcontinentale.
Secondo Confindustria tutto questo porterebbe benefici alle imprese, ovviamente senza tenere in alcuna considerazione la sorte dei lavoratori espulsi dai cicli produttivi, dal lavoro, dalla possibilità di vivere decentemente con un salario già fin troppo attaccato, nella sua composizione, da troppe tappe concertatrici.
Se il ruolo del sindacato è contrastare apertamente la logica imprenditoriale sul versante economico, compito del governo è gestire il controllo dell’applicazione di tutta una serie di garanzie che devono poter tutelare i lavoratori, facendo riferimento primo alla Costituzione e alla considerazione del lavoro come elemento fondante della Repubblica e della vita del popolo.
Suonerà banalmente pleonastico, ma se lavoratrici e lavoratori, sfruttati tutti hanno una opportunità di rimettersi a lottare unitariamente per l’emancipazione dei propri diritti, per riformulare una visione alternativa a quella capitalistica di direzione dell’economia, questa nasce dalla stessa opportunità che hanno gli imprenditori di agitare il Covid-19 come alibi per sforbiciate ampie nei comparti produttivi, mutazione degli organici e conversione delle produzioni fruendo delle defiscalizzazioni previste dai disegni di legge che sono in elaborazione.
La minaccia dello sciopero generale è sacrosanta. Senza un ampio fronte di rivendicazione delle prerogative essenziali del mondo del lavoro, Confindustria finirà per rimarcare abbondantemente che l’unica legge dello sviluppo economico è sempre e soltanto legata alla logica privata di una produzione privata spacciata per ricchezza nazionale.
Nazionale fino a che non bussa alla porta il fisco. Dopo aver richiesto incentivi dallo Stato per 6.5 miliardi di euro, grandi aziende automobilistiche trasportano le loro sedi legali in Olanda, dove le tasse da pagare sono molte meno rispetto all’Italia. Aziende che hanno avuto aiuti pubblici per decenni, che hanno usufruito di agevolazioni che avrebbero dovuto consentire loro di ottenere risultati in attivo nei bilanci, oggi si trovano quasi in bancarotta. Per la gestione scriteriata dei loro sacri manager, per la necessità endemica nel loro ruolo privato di accumulare profitti e investire ben poco nello sviluppo di produzioni innovative. Tanto da dover tentare oggi la fusione con altri gruppi d’Oltralpe per cercare di poter rimanere a galla.
Il fallimento della gestione privata dalla produzione economica è evidente nella costante crisi che, coronavirus o no, serpeggia sempre nei grandi gruppi aziendali: non è soltanto il Covid-19 ad aver imposto una accelerazione dei fallimenti, bensì l’impossibilità a reggere l’espansione di nuovi grandi poli capitalistici mondiali che hanno innescato una battaglia ad esempio nel settore automobilistico che dall’asse Europa – America si è spostato sul fronte America – Asia.
La concorrenza, dunque, è motore e morte al tempo stesso per tanti ingranaggi imprenditoriali. Lo straccione capitalismo italiano, l’elemosinante classe imprenditoriale dello Stivale ne dovrebbe avere contezza e, seppure non rientri nella natura del ruolo della classe dominante, convincersi che conviene fare qualche sacrificio per salvare tanti impianti produttivi e tanti posti di lavoro.
Senza i lavoratori non c’è alcuna ricchezza. Senza i padroni ve ne sarebbe molta di più per tutte e per tutti.
MARCO SFERINI
6 agosto 2020
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