Almeno dal punto di vista dell’analisi politologica il dato di maggior interesse che si presenta in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo è sicuramente rappresentato dalla verifica dei meccanismi di aggregazione ed espressione del consenso che si realizzeranno attraverso la mediazione della nuova formula elettorale, mista tra maggioritario e proporzionale con voto sulla stessa scheda senza possibilità di espressione disgiunta.
Una formula elettorale che presenta (come già le precedenti) palesi profili d’incostituzionalità e che probabilmente nella sua applicazione pratica riserverà sorprese non da poco per quanti, in questo momento, stanno baldanzosamente facendo i conti con un sacco di collegi sicuri, da incrociare con doppie triple fino a quintuple candidature in modo da comporre a piacere il puzzle dei futuri gruppi parlamentari.
Saranno, infatti, sottoposti alla prova tutte e tre le modalità classiche di voto: quella di appartenenza, di opinione e di scambio, anche se alla fine l’esercizio di quella che dovrebbe risultare prevalente in una società moderna “mobile”, cioè quella di “opinione”, potrebbe favorire la crescita già prevista del “non voto” come conseguenza di una precisa scelta politica.
Potrebbe essere giunta quasi ed esaurimento la parabola dell’antico voto di appartenenza, sottoposto nel corso degli anni al logoramento di un evidente trasformismo attuato non tanto dai singoli (i famosi “cambi di casacca”) ma dal complesso dei soggetti politici che mutano collocazione, contenuti, riferimenti e pretenderebbero di essere giudicati in continuità con insegne d’altri tempi e magari votati come antichi baluardi “contro” i pericoli derivanti dalla presenza dell’usato nemico: chi può, infatti, credere al PD come sbarramento contro i “populismi “ della destra, a un M5S che drena l’astensionismo (quando il fenomeno appare in costante crescita) oppure – addirittura – a un ritorno di Berlusconi in chiave di “diga” contro il comunismo di quarantottesca memoria?
Il voto di scambio, invece, è sempre in auge e si cerca di praticarlo in larga scala e non tanto e non solo sul piano del favore personale immediato: di che cosa si tratta, infatti, se non di voto di scambio a livello di massa quando ci si lancia in mirabolanti promesse di abolizione di questa o quell’altra imposta o tassa o tariffa, oppure di intervento sul fisco attraverso la “flat tax” oppure ancora quando si promettono “bonus”, redditi di dignità o di cittadinanza, insomma del campare senza lavorare pensando a coprire i costi con i proventi della lotta all’evasione fiscale?
Tutto questo circola in abbondanza all’interno dei messaggi che ci si stanno scambiando in campagna elettorale facendo prevedere, alla fine, una vera e propria “implosione” nel determinarsi dei meccanismi di raccolta e aggregazione del consenso. “Implosione” derivante proprio da saturazione da promesse.
Il 4 di marzo si sperimenteranno sulla scheda alcune novità rilevanti.
La più importante della quale, cui dedicare attenzione, sarà quella rappresentata dal trasferimento diretto del voto dal collegio uninominale e quello plurinominale, senza possibilità di voto disgiunto e di espressione di preferenza sulle specifiche candidature di lista.
Si pone così una questione non da poco per tutte le forze politiche: da dove partite per orientare e riaggregare il consenso di elettrici ed elettori?
Dalla parte plurinominale, puntando cioè su appartenenza (residua) e opinione (mediata dai social) e pensando quindi che nell’espressione di voto si trascuri la composizione stessa della lista, in buona parte dei casi contenente candidati estranei e posti in un ordine tale per favorire l’eventuale di un’elezione di fedelissimi da usare nel futuro parlamento esclusivamente a favore delle manovre di leadership non interessate a un’idea di rappresentanza politica?
Oppure dalla parte del collegio uninominale, così pubblicizzata attraverso il tam tam dei cosiddetti “duelli” (in gran parte finti, in quanto i protagonisti dispongono di ampie possibilità di elezione in altre sedi), pensando così di esaltare la competizione diretta e quindi di utilizzare quel voto in funzione della parte plurinominale?
Insomma: si era pensato di costruire un’autostrada per facilitare la messe del consenso senza difficoltà; ne è venuta fuori una vera e propria strettoia dalla quale sarà difficile per candidati e partiti districarsi considerato che si è voluto imporre questo iugulatorio “voto unico”.
Come si è potuto ben notare attraverso questa sommaria ricostruzione delle modalità di voto, appaiono quanto mai incerte le prospettive di raccolta e aggregazione del consenso da parte delle forze politiche: dipenderà in parte anche dallo specifico delle situazioni territoriali e, nel caso, si dovrà valutare davvero il peso dell’operazione “paracadutati” e la vacuità dell’idea che il collegio uninominale avvicini candidati ed elettori, proponendo come base i problemi del territorio. Non mai stato così e mai lo sarà, salvo nelle illusorie rappresentazioni degli articolisti scopritori seriali della banalità di scelte scontate per mera convenienza.
Sarebbe interessante pensare di poter recuperare almeno un poco dell’antico voto di appartenenza presentando con chiarezza, non tanto e non solo candidati riconoscibili, ma soprattutto programmi costruiti sulla chiarezza nell’espressione di concrete contraddizioni sociali.
Insomma: elettrici ed elettori che votano liste delle quali sanno con il massimo di precisione da “quale parte stanno”, come oggi invece avviene raramente.
Altri tempi quelli del “voto di appartenenza” nei quali albergavano ideologia e progettualità: merce ormai scomparsa da tempo (l’ideologia addirittura aborrita) dalla scena politica e non solo elettorale.
Auspicarne il ritorno pare a molti un ritorno all’indietro: riflettiamoci considerato che la proposta generale è quella di un ritorno all’indietro ai tempi del dominio incontrastato dello sfruttamento e della sopraffazione. In un qualche modo, anche con il voto, sarà pure il caso di opporci a questa degenerazione.
FRANCO ASTENGO
foto tratta da Pixabay