Non mi stupisco ma mi indigno. Riassumo così quello che mi ispirano le parole del tecnico del Napoli calcio. Non sono uno sportivo, seguo solo la nazionale quando gioca nei campionati mondiali. Per il resto i colori delle squadre sono un caleidoscopio indefinito per me: una vale l’altra.
Forse sono il più sportivo di tutti nel non esserlo, ma non sono mai riuscito ad appassionarmi ad una “fede calcistica”. Per me la fede è qualcosa di sacro anche quando non è ispirata da una religiosità o da un misticismo che tendono verso qualche dio.
Capisco chi si appassiona molto alle vicende del calcio, chi segue meticolosamente ogni momento, ogni calcio dato al pallone, ogni polemica che nasce, si sviluppa e muore sotto il peso delle infinite discussioni televisive.
Ma lo sdoganamento del razzismo, dell’omofobia e di altri sentimenti poco nobili anche nel mondo del pallone che rotola sul prato verde, non è purtroppo una novità, un fulmine a ciel sereno.
Quanta “fede politica” è entrata negli stadi ormai da decenni e decenni? Il proprietario del Milan non era forse quel tale Silvio Berlusconi divenuto poi tre volte presidente del consiglio?
E, rimanendo in campo meneghino, non erano forse i Moratti proprietari della squadra avversaria, anche loro discesi chi più chi meno in politica, seppure in ambiti e settori più condivisibili rispetto a quelli del Cavaliere nero di Arcore?
C’è stato un tempo in cui tutto ciò che ti circondava aveva una classificazione di destra o di sinistra. Non c’era spazio per il centro. Ne ha anche scherzato Giorgio Gaber in una celebre canzone.
Per cui storicamente la Lazio era di destra e la Roma di sinistra. Il Livorno addirittura aveva connotazioni ancora più precise: era proprio comunista, per via anche delle simpatie politiche di uno dei suoi più celebri capitani e per le tante bandiere rosse con il Che, con la falce e martello che sventolavano dalle curve.
Poi il calcio ha vissuto la parabola discendente della politica italiana e i colori delle squadre sono tornati ad essere colori sempre meno ideologici e sempre più sportivi. Bene così, si potrebbe dire. Se non fosse che calciatori, allenatori e tifosi, almeno molti di loro, si propongono in dichiarazioni a volte razziste, a volte omofobe, altre volte qualcuno tende il braccio al saluto romano in campo.
In Croazia, per rinverdire le gesta di Ante Pavelic, qualcuno ha addirittura disegnato una svastica semi visibile sul campo di calcio.
Quindi lo sport, il gioco del pallone in particolare, rimane una fucina di creazioni dialettiche e anche artistiche che inneggiano a differenze razziali e sessuali per esprime un concetto.
Qualcuno dirà: “Chissà mai quale ragionamento devono fare questi soloni dello sport, questi alti uomini, questi profondi conoscitori di cultura d’ogni tipo?”. Nulla di eccezionale, si confrontano a suon di insulti sull’andamento di una partita, sulla classifica generale del campionato.
“Sciocchezzuole, bazzecole!”, avrebbe detto il grande Totò. Vero. Sono argomenti da bar. E dio solo sa quanto sarebbe utile sentire parlare nei bar più di questioni sociali che di reti violate da un pallone.
Ma anche il calcio ha una sua utilità quando porta alla ribalta, in tempi di approvazione del disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili, proprio quei temi cari a chi ogni giorno si batte contro il pregiudizio e l’insulto che ne nasce quando si vuole apostrofare qualcuno offendendolo duramente: “Frocio! Finocchio! Checca!”. Questi vanno per la maggiore.
Sono un poco in disuso invece: “Succhiacazzi”, “Invertito” e “Pigliainculo”. Qualcuno mi corregga se male ho sentito in questi anni…
Ora, il tecnico del Napoli ha offeso Mancini. Tutto vero. Eppure io penso che abbia prima di ogni altra cosa offeso quell’intelligenza che, mi auguro, abbia nel suo cerebro. È grave? Lo è per un motivo soltanto, se così si può dire: perché tutto ciò significa ancora che nel linguaggio comune questi insulti omofobi sono la normalità di una parlata, di una vulgata che non viene vissuta come offensiva per altri ma solo per la persona cui là si vuole rivolgere.
Una volta scrissi che anche dire “vaffanculo”, innocente espressione usata e abusata ogni giorno da molti milioni di italiani e cittadini del mondo nelle diverse traduzioni linguistiche, è indirettamente una forma di omofobia. Latente, quasi inconsapevole: vai a fare in culo ha un senso come frase. E vuole dire stigmatizzare l’andare a fare in culo. Quindi chi ha rapporti sessuali anali è qui preso in accezione negativa.
E anche se non sei gay, se ti mandano a fare in culo, ti ci mandano proprio perché considerano quell’atto qualcosa di brutto, sporco e cattivo.
Ma il linguaggio comune, quello di quei poveretti che usano solo tremila parole al massimo, vuoi perché non hanno avuto modo di accrescere la loro cultura, vuoi perché non hanno voluto, include anche la parola “vaffanculo”. E sicuramente include anche tutti gli altri epiteti sessisti contro le donne e contro gay, lesbiche, trans… Un bel parterre di alta concezione dei rapporti civili e sociali.
E qualcuno si scandalizza, in questo bel quadretto sociale, se un tecnico di una squadra di calcio, preso dall’ira funesta, dà del frocio ad un collega? Lui l’ha considerato un dire assolutamente normale, consueto, naturale.
Qui sta il problema dei problemi: la sottile, insidiosa normalità del pregiudizio. Buon gioco!
MARCO SFERINI
21 gennaio 2016
foto tratta da Pixabay