Oggi quanto siamo capaci di trascendere la realtà in cui ci troviamo a vivere? Se si trattasse di rispondere esclusivamente in chiave filosofica, quindi su un terreno prettamente elucubrativo, dai contorni speculativi, si arriverebbe alla conclusione che la voglia di elevarsi culturalmente oltre la miseria della quotidianità, fatta di tantissime tragedie e atrocità, ingiustizie e prevaricazioni, è ben poca.
La fuga dalle circostanze che ci toccano in sorte è un’operazione che si ottiene più che altro mediante l’alienazione prodotta dai social network, da una spersonalizzazione di noi stessi attraverso un costante riconoscimento nei nostri doppi telematici, in quei riflessi della nostra personalità che sono molto male mediati e interpretati dalle poche parole che scriviamo su X, dalla verbosità che produciamo su Facebook con centomila fraintendimenti al seguito, dalla iconica dimostrazione di quello che vorremmo poter essere affidata alla caleidoscopica sequela di immagini di Instagram.
La trascendenza che siamo oggi capaci di concepire è tutta qui. Almeno per la stragrande maggioranza delle persone, soprattutto dei giovani, ma in larga parte anche per noi adulti che abbiamo scoperto il confronto tra il nostro passato pre-internettiano e il nostro presente-futuro proiettato nelle dinamiche della inquietante “intelligenza artificiale” e della “realtà virtuale“.
Paradossalmente, da un rapporto continuativo con la trascendenza non è detto che derivi un meccanicistico abbandono dell’immanenza, dello sguardo hic et nunc, dell’osservazione puntuale di quello che ci circonda, dei rapporti sociali, economici, antrolpolgici e culturali che determinano l’evolversi di una umanità votata ad un nichilismo impressionante.
Una sorta di vocazione all’autodistruzione attraverso lo sfruttamento esagerato e illimitato delle risorse naturali che, senza riguardo alcuno per i diritti degli altri esseri viventi e la tutela della Natura (con la enne molto maiuscola), è la ragione prima della fase liberista del capitalismo, dell’accumulazione sempre più massiccia di risorse in sempre minori tasche e mani.
Se consideriamo la Natura come parte di un Esistente (sì, anche questo con la maiuscola e bene in evidenza), di una realtà che è oggettivamente sotto i nostri occhi, percepibile con tutti i nostri sensi, dovremmo poter trascendere fino al punto limite di guardarci dall’alto in basso e arrivare alla constatazione che la finitudine è parte delle nostre caratteristiche intrinseche: siamo, come ogni parte della materia, delimitati e limitati dai nostri confini. Fisici, quindi corporali, psicologici e spirituali, quindi mentali.
Spinoza avrebbe chiamato quell’Esistente che ho poco sopra citato come “la Sostanza“, come il tutto che è inscindibile da sé stesso, inseparabile dai suoi fini, dalle sue leggi che altro non sono se non quelle che citiamo ogni giorno quando parliamo del mondo che ci circonda: le leggi della Natura.
La trascendenza spinoziana non è impedita nel suo volo (generalmente abbastanza pindarico) da un razionalismo in stile cartesiano. Semmai è limitata, come il nostro intelletto, come le nostre capacità di studio, di coscienza e scienza.
Il filosofo olandese, nell’organizzare una sorta di “teoria del tutto” (come molti altri pensatori a lui precedenti, del suo tempo e anche a lui posteriori) mette nero su bianco una costellazione di eresie che lo resero inviso tanto ai rabbini della sua comunità che lo maledirono, quanto ai protestanti e, poteva non essere altrimenti…, ovviamente anche alla Chiesa cattolica apostolica romana.
Siccome tutto quello che noi siamo a noi stessi e tutto quelli che ci è dall’esterno di noi medesimi segue delle leggi predeterminate, che la biologia, la medicina e ogni altro campo del sapere indaga da sempre, è sembrato logico (ergo ragionevole, quindi anche razionale) chiedersi perché mai da un seme nascesse una pianta e perché proprio quel seme facesse quella pianta e, ancora, perché mai tutti gli stessi semi dessero vita allo stesso tipo di pianta.
Non sarebbe stato possibile che avvenisse altrimenti? C’è nella materia, nella “Sostanza“, in ciò che esiste una consequenzialità di fattori che determinano non delle casualità successiva, ma risposte sempre uguali e perfettamente coerenti con l’intero sviluppo del tutto.
Dalla roccia inanimata alla pianta sensibile, dall’animale non umano senziente all’essere umano cosciente ed autocosciente. Proprio nella coscienza questo rapporto di causa ed effetto sembra interrompersi, perché noi sapiens siamo in grado di operare delle scelte nella Sostanza, sulla Sostanza, attraverso di essa.
Pur facendo parte di un tutto da cui non possiamo estrinsecarci e trascendere per evitare le conseguenze delle nostre azioni, quello che soprattutto le religioni rivelate hanno chiamato, insieme a molte correnti filosofiche, il “libero arbitrio“, è in quanto volontà anche potenza.
E’ la possibilità di formare e deformare il presente entro certi limiti: siamo in grado di distruggere interi ecosistemi ma noi ne dobbiamo subire tutte le conseguenze. Se inquiniamo l’aria e i mari, se deforestiamo intere regioni del pianeta o urbanizziamo senza alcuna discriminante territori un tempo rurali, sappiamo che le mutazioni ambientali saranno prima o poi un dato di fatto, qualcosa con cui dovremo fare i conti.
Nonostante la nostra specie si sia resa perfettamente conto che le leggi della Natura sono incoercibili da parte dell’essere umano, la sfida alla Sostanza non si è diradata, non abbiamo posto un freno allo sfruttamento di noi stessi, degli animali, del pianeta Terra. Anche in questo frangente, possiamo dire che abbiamo trasceso, siamo andati molto oltre il limite del rispetto di ogni esistenza, di ogni vita singola e complessa.
Forse Spinoza attribuirebbe tutto questo a quelle passioni che agitano l’animo umano e lo rendono, in un certo qual modo, schiavo di sé stesso e non libero mediante sé medesimo. Abbiamo forse seguito troppo a lungo una istintività che ha soppiantato la razionalità?
O forse, abbiamo ceduto alle lusinghe di quel potere che abbiamo creato nel corso dei millenni e che ci ha intrappolato in una gabbia sempre meno dorata, provando a dare un senso ad una esistenza che, altrimenti, ci sarebbe apparsa vuota e prima di qualunque scopo?
Molto laicamente si può provare a rispondere a queste domande tenendo conto del fatto che, durante tutta la nostra vita siamo alla scoperta di noi stessi: ci interroghiamo, studiamo, scopriamo e, più comprendiamo la nostra finitudine, più pretendiamo di avere in questo mondo un posto di privilegio, una garanzia di essere preservati al meglio da tutto quello che minaccia la nostra sopravvivenza.
Ad essere ragionevolmente comprensivi delle tantissime contraddizioni che ci attraversano giorno dopo giorno, adottando il metodo spinoziano, dovremmo anche noi prendere in considerazione non il giudizio delle azioni umane, ma la comprensione: altrimenti detta come la capacità di comprendere, di capire ciò che accade, perché accade e come poter evitare che accada nuovamente se si tratta di fenomeni che recano danno, disagio, sofferenza.
«Humanas actiones non ridere, non lugere, neque detestari sed intelligere». Il contrario di quello che le passioni inducono a fare.
Tanto le passioni religiosamente intese, quanto quelle molto temporalmente e laicamente date e osservabili nel lungo cammino della Storia umana. Spinoza a questo punto mette sul tavolo della sua filosofia monistica una carta molto interessante nel gioco dialettico con il suo tempo, che gli era completamente ostile in quanto lo considerava un ateo impenitente.
Spinoza, che ateo non è, si rende conto che l’uomo ha creato gli dei antichi e il dio moderno a sua immagine e somiglianza, per scopi che si sono incontrati e condivisi in una eterogenesi dei fini che ha giocato sempre a favore del consolidamento di poteri che si sono giovati dell'”opium des volks” per governare, imporre il loro volere e determinare quelle condizioni di supremazia di una nazione sulle altre, al solo scopo di dominare e prevalere, così da preservarsi e non soccombere alle avversità dello scorrere del tempo.
La carta che Spinoza mette sul tavolo è quella della critica di un antropocentrismo esasperato: l’uomo al centro di tutto, dal cosmo alla Terra, in ogni dove e senza soluzione di continuità tanto spirituale quanto materiale. L’etica umana è l’etica che imponiamo ad ogni altro essere vivente, ad ogni cosa che, in questo modo, deve regolarsi sulle esigenze nostre e non su quelle della complessità unica della Sostanza, dell’Essenza, dell’Esistente.
Dio, così, altro non è se non la rappresentazione titanica, gigante, quasi impensabile nella sua onnipresenza, onniscienza e ubiquità, dell’uomo stesso. Molto più semplicemente, Spinoza propone una chiave di lettura, nel rapporto tra immanente e trascendente, che non sia più la netta contrapposizione tra i due concetti, tra materiale e immateriale, tra terrestre e cosmico, tra inferiore e superiore, tra sensibile e invisibile.
Il Dio di Spinoza, e sinceramente un po’ anche il mio, è la Natura stessa, con tutte quelle leggi che sono il suo divenire immutabile: ad una azione nostra, che tenda anche a sovvertire quelle leggi, corrisponde comunque una legge della Natura. Una legge che è una reazione per noi ancora indeterminabile, visto che ci sorprendiamo di continuo quando assistiamo ai disastri che investono le nostre città se piove più del solito, se la terra si secca perché invece non ci sono precipitazioni da mesi e mesi, se il caldo diventa asfissiante, se il gelo diviene glaciale anche alle nostre latitudini.
Tutto questo fa parte di un «ordine saldo e immutabile della Natura» in cui la Sostanza c’è e non può non esserci; ed in quanto tale è libera e necessaria in sé stessa e nulla può cambiare questa oggettività che non è difficile considerare infinita nel tempo, nello spazio, in qualunque dimensione possibile. La libertà che crediamo di avere è una illusione.
Noi siamo liberi soltanto dentro le leggi di una Natura che è deterministica non tanto in un mero rapporto di causa ed effetto, nel senso più classico del meccanicismo, quanto semmai nell’intangibilità assoluta di sé stessa.
Possiamo forzare ciò alterando gli equilibri ecosistemici, ma la risposta della Natura ci sarà sempre e prescinderà dalla nostra presenza sul pianeta. Noi ci pensiamo e reputiamo necessari alla vita sulla Terra, mentre siamo, al pari di tutte le altre forme della materia, una parte del tutto e non qualcosa per cui tutto ha, alla fine, uno scopo.
Lo scopo è la Sostanza di per sé. Spinoza, che pure visse per soli quarantaquattro anni e che morì a causa della tubercolosi, in pochi decenni di esistenza comprese che particolare e universale sono in correlazione e che noi umani non facciamo altro che astrarci dall’universale, insopportabile specchio della dimostrazione della nostra piccolezza e finitudine, per dare a questo nostro mondo un aspetto di logicità complessiva.
Ed è proprio nella separazione dall’enormità del non-senso rappresentato dall’inconoscibilità di ciò che c’è (quindi dell’Universo), che possiamo sopravvivere in una apparente logica del tutto, limitata alla quotidianità di una vita in cui abbiamo una ragione d’essere solo se creiamo problemi che possiamo risolvere.
La lotta tra le classi sociali non è un capriccio esistenziale, è una conseguenza di rapporti di forza che si sono determinati per le dinamiche che obbediscono a quello che il filosofo olandese chiama il “conatus sese servandi” (ossia lo “sforzo di conservarsi“), ma è anch’essa perimetrabile entro questa ansia di affermazione del “senso“, del “significato” del vivere.
Tutte le nostre passioni negative, razzismo, identitarismo, conservatorismo culturale, diatribe sull’origine di una o di un’altra specie, confronti etnici, pregiudizi tanto ideologici quanto sessuali, altro non sono se non costrutti a cui è affidato l’oblio di una vera consapevolezza della finitudine umana.
Meno si sa della propria condizione di solitudine nell’Universo, della pochezza di quello che rappresentiamo, più possiamo ritenere di essere speciali, cosa che in effetti lo siamo, perché la nostra intelligenza ci permette di scrivere, fantasticare, porci domande relative alla comprensione tanto di noi quanto di ciò che ci sta al di fuori.
Ma se questa specialità diventa prerogativa per determinare una scala gerarchica che mette l’uomo al di sopra di tutto e di tutti, allora la mortificazione dell’intelligenza è la conseguenza di una premessa: la Ragione può essere trascurata.
Meglio affidarsi agli dei o al Dio creato dall’uomo per l’uomo stesso. Tutto ciò prescinde dall’esistenza stessa di Dio. Per Spinoza è la Sostanza, la Natura, un panteismo considerato eresia allo stato puro. Per altri è una sacralità della Natura (come ne scriveva Pasolini) che ci induce a ritenere che qualcosa di grande c’è, che prescinde dalla volontà del singolo e dell’umanità intera e che ci istruisce nelle nostre istintualità, che ci fa scegliere anche quando siamo incerti, che ci fa sentire empatia per le sofferenze che, sappiamo, possono essere anche le nostre.
Perché se Dio è in tutto, ogni atomo della materia è Dio stesso. E se questo fosse vero, allora anche queste domande, frutto di un cervello che è parte del tutto, dovrebbero corrispondere alla Sostanza spinoziana, per quanto passionali e divaganti possano essere rispetto alla razionalità.
Una Ragione che, forse per la prima volta nella storia della filosofia occidentale, non viene vista in contrapposizione alla fede, ma oltre la concezione vecchia di un dualismo che, a ben vedere, ha davvero poco senso, questo sì, di esistere.
MARCO SFERINI
5 novembre 2023
foto: particolare dell’opera di Samuel Hirszenberg, “Spinoza scomunicato“, 1907