Questa è una piccola storia infame, una di quelle con cui il processo alla Resistenza è stato fatto a priori, pregiudizialmente, con una voluta pretestuosità. Per dare una parvenza, ma pure una sostanza, di ragionevolezza della storia dei cosiddetti “vinti“, per tentare l’operazione riduzionista di fatti che, nonostante tutto, hanno sempre la testa durissima.
Questa è una piccola storia infame che si somma a tante altre che hanno costituito, nella ormai libera, democratica e repubblicana Italia del dopoguerra, già dal 26 aprile 1945, una narrazione scomposta, abborracciata, approssimativa, sostanziata soltanto da quel racconto semplice, diretto e immediato che è possibile soltanto fuori del metodo di ricerca storica, ben al di là della benché minima parvenza di una qualche forma di verità.
Questa è una storia che si può scrivere oggi senza che nessuno possa confutarne il benché minimo tassello che la compone: non vi sono più coni di luce che rischiarano solo quello che revisionisti e neofascisti volevano che fosse sotto i riflettori dell’antistoricità di un sentimento ribellista rivolto contro i vincitori. Sappiamo come è andata, sappiamo in che contesto si è sviluppata, dove, come e quando ha avuto il suo tragico epilogo e conosciamo anche la storia della storia.
O per meglio dire, le tante storie di una storia che, proprio perché molteplici, si ingarbugliano vicendevolmente, per alimentare le illazioni, per sostituire senza soluzione di continuità il dubbio preconcetto all’oggettività dei fatti.
Il collettivo di scrittori “Nicoletta Bourbaki” si è dato la missione del disvelamento di tanti e tali enigmi della Storia recente che, appena ci si avvicina alla lettura delle ricerche dettagliate e minuziose sostenute in anni di collaborazione fattiva, questi si sciolgono come neve al sole.
Quei misteri che il neo e post-fascismo ha teso ad alimentare nell’immaginario collettivo, per induzione malevola, politicamente ispirata alla generazione di vere e proprie montagne di “fake news” e di alterazioni considerevoli delle vicende della seconda metà del Novecento, accadute per lo più in Italia, trovano oggi sempre meno spazio di riproduzione per via di una inedia incedente che avanza e sopravanza sulle orgiastici compiacimenti da social.
Il giocattolo, se proprio non si è ancora del tutto rotto, è prossimo ad una incrinatura solenne, ad una irrecuperabilità di credenziali che si era costruito attraverso l’infingarda spavalderia di essere il nuovo, vero, filone storico della “pacificazione nazionale“, del “superamento dell’antifascismo” che sta tanto a cuore all’attuale Presidente del Senato e che è caldeggiato da una masnada di combriccole e ricettacoli del neofascismo che oggi si vorrebbe far passare per “post“, per altro da sé stesso.
Sottolineato abbondantemente: “La morte, la fanciulla e l’orco rosso” (edizioni Alegre, ottobre 2022), con sottotitolo “Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana“, non è un giallo romanzato tratto da eventi realmente accaduti. Quello, semmai, è il racconto che è stato fatto dai decompositori della verità dei fatti, di quello che accadde in quella fine di aprile del 1945 e che, col fine di tentare ennesimamente l’operazione di screditamento della Resistenza antifascista, è stato portato avanti da nostalgici del regime, autoritari di tutte le specie immaginabili e revisionisti di bassissima lega.
Il collettivo Bourbaki trasforma il giallo in un noir, perché di cronaca nera qui si tratta e si parla, si scrive e si documenta. Nulla è lasciato al caso, ma tutto è trattato con la lente di ingrandimento che Marc Bloch ci ha lasciato prima di essere inghiottito dal vortice della guerra.
Il metodo storico prevale necessariamente su qualunque tentazione approssimativa, sui “sentito dire“, verificando le fonti attraverso la prova del nove della loro intrecciabilità vicendevole, del loro stare in piedi grazie ad una convergenza di date, luoghi, persone, eventi, tempi e modi che non posso lasciare adito a dubbi.
Per lo meno su quello che di certo si sa: che imperversava ancora la guerra, che Savona stava affrontando il passaggio dall’occupazione tedesca e dal terrore fascista al movimento resistente e partigiano; che una ragazza di nome Giuseppina Ghersi girava per il suo quartiere con una pistola in tasca e che frequentava le Brigate Nere, che ne era a tal punto intrinseca da permettersi di minacciare i propri concittadini, avvertendoli di rischiare di finire chissà dove o chissà in quali mani se avessero parlato troppo, espresso le loro critiche verso il fascio.
Sappiamo molto e altrettanto poco al tempo stesso di questa annosa vicenda di cronaca nerissima di una guerra che stava per finire. Sappiamo molto se ci riferiamo alle testimonianze dell’epoca, di chi viveva nei quartieri a ponente di Savona, di chi aveva conosciuto Giuseppina e poteva descriverne i comportamenti, suoi e della sua famiglia.
Dalla viva voce di una grande partigiana, presidente dell’ANPI di Savona per molto tempo, quale fu Vanna Vaccani Artioli, io stesso ho ascoltato il racconto di quelle giornate ricostruite da Bourbaki.
Il 24 aprile 1945 si trova ancora rinchiusa ad Albenga. All’improvviso, nelle ore della mattina, un fragoroso rumore di cingoli e motori la svegliano: sono fascisti e tedeschi che abbandonano la piana inganna e fuggono verso l’entroterra. L’inferriata della cella di Vanna si apre. E’ libera, frastornata e ancora non riesce a credere di poterne varcare la soglia.
Salta su una bicicletta e, sotto una violenta sparatoria, fa i quaranta chilometri che la separano da casa sua, da Savona. Vi arriva e trova la madre accanto al corpo del fratello Franco, partigiano anche lui, ucciso a soli diciotto anni.
Vanna mi raccontò più volte che il clima della Liberazione si confondeva per lei, e anche per quello che rimaneva della sua famiglia, con un misto di tristezza e di angoscia. E non solo per la terribile perdita del proprio fratello, ma perché, subito dopo essere tornata nel capoluogo, dovette provvedere, insieme ad altri compagni, al recupero dei corpi di tanti partigiani straziati dalle raffiche di mitra di quelle Brigate Nere che Giuseppina Ghersi frequentava e per le quali faceva la spia.
Anche questi ricordi sono verificabili tutti: sono testimonianze consegnate all’archivistica e, quindi, documenti provati dalla reperibilità di quelle fonti incrocibaili di cui si faceva riferimento poco sopra.
In questo clima di eccitazione e di tragicità diffusa, Savona fa i conti con ciò che resta della penombra oscura di Salò, del grigiore dalla sua crudeltà, del fascismo più terroristico e spietato: dalla banda Koch alla Guardia Nazionale Repubblicana; dalle torture di via Tasso a Roma a quelle nella torre del palazzo della federazione fascista di piazza Aurelio Saffi (oggi sede della Prefettura).
La contestualizzazione non è una giustificazione per alcuna violenza. Ma la guerra è violenza, è anche arbitrio, ed è, a volte, anche giustizia, quando si tratta di recuperare un popolo alla civiltà, alla democrazia, ad una libertà quanto meno formale per poterne un giorno sostanziare davvero gli strati più profondi e dirimenti per la vita di ciascuno e di tutti.
La storia di Giuseppina Ghersi si inserisce a tutto tondo in questa tempesta di fuoco e in una aurora boreale che si contrastano e si compenetrano allo stesso tempo. Le contraddizioni della bellicità dominante degli eventi stridono con la voglia di non sentire più colpi di pistola e di fucili, ordini e contrordini, comandi e urla a soldati, a civili, ad inermi che restano sul selciato per le vie di una Savona ormai quasi del tutto libera.
Il collettivo Bourbaki rende giustizia anzitutto alla Storia della Resistenza ogni volta che sgombera il campo dai tentativi di inventare una nuova storia, di rendere possibile questo mediante le dicerie, le amplificazioni di falsi che si propagano inizialmente con l’onomatopea dei suoni di allora attraverso immagini prese a casaccio, pescate nel mucchio delle menzogne accatastate un po’ ovunque su Internet (e anche in molti libri scritti per vendere qualche copia in più e affermare, alla fine, l’antitesi col mestiere di giornalista e presunto storico che ci si voleva dare).
Non basta una foto scattata e Milano ad una collaborazionista dei tedeschi e dei fascisti per dare nuova vita alla storia di Giuseppina Ghersi, perché, nonostante tutto, c’è e ci sarà sempre chi andrà all’origine della vicenda singola che fa parte di un grande affresco che ha segnato i tempi per sempre.
La verità può essere temporaneamente oscurata dal velo revisionista da un lato o dai complottismi dall’altro. Le invenzioni sono merce facilmente spacciabile. Ma la contraffazione dei fatti non può essere moltiplicabile all’infinito.
Prima o poi la moneta falsa salta fuori e viene messa fuori circolazione. Ed è così che, dopo anni di lavoro su una, apparentemente piccola, storia infame dell’aprile del 1945, nella provincia ligure, si mette un altro mattoncino di sicura tenuta alla diga del metodo storico contro le tante scempiaggini dette, scritte e presuntamente (di)mostrate sulle partigiane e sui partigiani.
Soltanto grazie allo studio meticoloso, senza cercare alcuna “angelizzazione” del fenomeno resistente, ma comprendendolo appieno nelle dinamiche e nelle dialettiche del tempo in cui nacque, si sviluppò ed ebbe termine (almeno sul piano meramente militare), viene fuori tutta l’umanità di quel movimento di popolo che, seppure minoritario nella sua composizione rispetto alla grande massa degli italiani che subirono e che, in larga parte, collaborarono con il nazi-fascismo.
Prima che la Resistenza antifascista, è proprio alla verità storica che collettivi come Nicoletta Bourbaki rendono omaggio con le loro ricerche, con i loro studi certosini e distillatori, demistificatori e demitizzanti. Non aspettatevi la difesa o l’accusa a priori per niente e per nessuno. Ma aspettatevi soltanto, se così si può dire, un racconto tutt’altro che essenziale ed asciutto.
LA MORTE, LA FANCIULLA E L’ORCO ROSSO
NICOLETTA BOURBAKI
ALEGRE EDIZIONI
€ 18,00Per approfondire: Giap – il blog di Wu Ming
MARCO SFERINI
9 novembre 2022
foto: particolare della copertina del libro