C’è un bel libro di Maria Grazia Ciani, che mi è capitato di leggere quasi casualmente, edito da Marsilio e il cui costo è abbordabile un po’ per tutti: si chiama “La morte di Penelope“. Mi è stato utile per ripensare non soltanto ai miti ellenici rivisitati da una illustre grecista, ma soprattutto per richiamare dalle figure dell’ieri, rivisitate nell’oggi, proprio la quotidianità in cui ci troviamo e che spesso è fatta di lunghe attese, proprio come quella di Penelope, lì ad Itaca, circondata da pretendenti, aspettando fedelmente il ritorno del marito dato per disperso dopo la guerra di Troia.
La Penelope della professoressa Ciani, stanca di aspettare, si innamora e quindi finisce col perdere di vista l’immagine di Odisseo e i suoi sentimenti per lui, cadendo tra le braccia dei proci, consapevole della sua caducità fisica e del trascorrere del tempo, di una bellezza che svanisce, di una seconda opportunità di amare che sta praticamente perdendo in una attesa che sembra sempre più vana e insperata.
Quasi fuori dal mito, è una Penelope umana la cui tela fintamente fatta e disfatta ogni sera non ha più quella grande importanza che Omero le aveva assegnato perché viene messa da parte e la donna, la regina, la madre di Telemaco decide di sfruttare le occasioni che le si presentano per darsi una seconda vita, per viverla soprattutto uscendo dall’inerzia quasi monacale in cui si era chiusa con la promessa dell’attesa dello sposo partito tanti anni prima per l’assedio delle mura di Priamo.
Il libro di Maria Grazia Ciani non trascura nella sua rivisitazione del racconto mitologico proprio la funzione del mito: quella di essere una sorta di psicoanalisi ante-litteram e di servire, per l’appunto, alla riflessione introspettiva e per questo alla fine me ne sono servito anche io, iniziando a fare paragoni con l’oggi e mettendo accanto a Penelope e alla sua seconda vita, neomitologicamente intesa come metafora universale da acquisire a mo’ di insegnamento individuale e sociale, e ho riflettuto, ma si pensi un poco…, anche in questo frangente sul ruolo che oggi abbiamo come comunisti e come sinistra.
Mi sono chiesto molto banalmente: dobbiamo escogitare anche noi il passaggio da una vecchia vita ad una nuova esistenza e lo dobbiamo fare senza (è uno dei miei punti fermi che qualcuno avrà incominciato a conoscere) perdere di vista le lezioni del passato, le culture che ci hanno animato nella volontà di cambiare la società (un tempo si diceva più ampollosamente “il mondo”), mantenendo la nostra identità perché senza identità quale ispirazione singolare e sociale trasmetteremmo nel voler creare una alternativa di società per la società stessa?
Oppure dobbiamo intendere questa evoluzione, questa nuova vita come Penelope ma ancora più drasticamente e abbandonare simboli, nomi, riti e testi, culture e idee che fino ad oggi sono state non solo la nostra essenza politica e sociale ma proprio il nostro modo di intendere il mondo, di guardarlo e di pensarlo capovolto rispetto ad una attualità continua di un capitalismo vorace che alimenta la lotta di classe ma che è anche capace di nasconderla dietro altri conflitti: la guerra tra poveri e disperati, tra ultimi della terra, la lotta tra disoccupati italiani e migranti, tra precari e rom, unisce aspetti che dovrebbero rimanere separati se esistesse veramente una coscienza di classe.
Origine etnica, tradizioni culturali di qualunque tipo e usi e costumi dovrebbero essere frutto di una morale che discende comunque da una comune situazione di vita: poveri lo si è tanto se si perde il lavoro a causa di una delocalizzazione fatta in Italia o se si fugge per disperazione dal proprio paese a causa di una guerra.
Anzi, il migrante “economico”, categoria un po’ inventata e un po’ reale, per certi versi si trova in una condizione di sofferenza maggiore perché subisce tutti gli stigmi del caso: il trovarsi in un ambito territoriale, sociale e culturale che gli è completamente alieno, estraneo, tanto quanto lui risulta “straniero” per le popolazioni autoctone che assistono al fenomeno migratorio.
La sinistra, pertanto, si è trovata davanti a mille nuove domande inserite in un contesto dove le risposte potevano venire da quella che viene definita una “cultura superata”, un approccio quasi anacronistico delle questioni di classe. Sovente sento dire che dobbiamo mutare il nostro linguaggio e comunicare innovativamente per farci comprendere dalle giovani generazioni che – oggettivamente – non hanno conosciuto le stagioni della politica di massa, quando la partecipazione veniva veicolata da grandi partiti e interpretata da quel “Paese nel paese” di pasoliniana memoria, rappresentato da una alternativa concreta e visibile rispetto ad ogni struttura borghese.
Case del popolo, Arci, Anpi, sindacati, associazioni e riviste culturali, giornali e persino radio vicine ad un timido socialismo democratico oggi non sono più tali e, al massimo, si limitano a lanciare appelli per un “voto antifascista” che include non “anche” ma soprattutto un “voto utile” nei confronti del PD che tutto è tranne un’ancora di salvezza per la sinistra, per i lavoratori, per i moderni sfruttati.
Penelope finisce per tradire Odisseo per un giovane, per una modernità dell’esistenza che vuole trasferire in sé stessa e che vuole vivere, provarla e sperimentarla con tutti i suoi sensi e sentimenti.
Deve agire così anche il movimento progressista e comunista? Deve adattarsi a ciò anche la sinistra diffusa e quella propriamente riconoscibile nella lista raffazzonata messa in piedi a ridosso del voto?
Deve tutto ripassare da una nuova Epinay tutta italiana, quasi come lavacro purificatore o alibi intenzionale per potersi dire “nuovi” e “immacolati”, oppure basterebbe semplicemente prendere atto che la “cassetta degli attrezzi”, nomi, simboli e analisi scientifiche comprese sono ancora valide e servirebbe soltanto ritornare ad essere riconoscibili per ciò che si è e ciò che si propone da tanto, tantissimo tempo?
Penelope non è più attraente come sua cugina Elena. Tuttavia è ancora seducente, è una donna che ha carattere e che ha tenuto testa a tanti pretendenti. Cede alle lusinghe di una voce interiore che la spinge al tradimento dello sposo. Cede ad Antinoo che tende un arco impossibile da usare. Subisce l’ira di Odisseo che la trafiggerà proprio con quella freccia che il suo nuovo amante è stato incapace di inarcare.
Penelope non vorrebbe forse cancellare il suo passato ma darsi una possibilità nuova, poter ancora vivere ancora.
Il nuovo mito di Penelope può essere utilizzato per comprendere quale via percorrere a sinistra, può essere una felice sintesi tra conservazione del bagaglio ideale, culturale e identitario (che non è una parolaccia) e innovazione della proposta e della comunicazione politica. Con qualche accortezza…
Si può creare una sinistra insieme anticapitalista e moderna. Facendo attenzione a non cedere alle lusinghe di un Antinoo, alle lusinghe di una finta necessità di salire un gradino nella scala evolutiva del progressismo che porterebbe non alla maggiore interazione tra sfruttati e rappresentanza politica dei medesimi, ma semmai verso una nuova vittoria del riformismo più becero: quello che seduce con promesse di gestione governativa, di importanza nei ruoli di gestione del potere che rimane un potere borghese, utilizzato dal capitale per fare sempre e solo i suoi sporchi interessi (di classe).
Aspettare Odisseo, in fondo, avrebbe voluto dire rinunciare ad un immediato piacere e a una vita nuova sgombra da infinite attese, ma al prezzo del tradimento non solo materiale ma anche ideale verso lo sposo, verso il sovrano di Itaca.
Il mito c’è: sia antico, sia modernamente rivisitato. Ora ognuno lo interpreti secondo coscienza.
MARCO SFERINI
9 giugno 2019
foto tratta da Pixabay