Ciò che è “sociale”, per sua stessa enunciazione, non è individuale, quindi è collettivo. Ma i tempi in cui viviamo, ormai da alcuni tempi a questa parte stessa, sono tempi in cui la “socialità” è intesa non tanto a livello materiale, economico, su un piano di rivendicazione di un necessario egualitarismo comunistico; no, la socialità oggi è propriamente “della rete”.
Se sentite pronunciare la parola “sociale” o “social”, non vi viene in mente lo “stato-sociale” o il socialismo. Vi salta immediatamente in testa il sinonimo per eccellenza di “social”, ossia Facebook, il potente “social network” cui molti di noi sono iscritti e dove riversano le loro vite quotidiane.
Non paghi di doverci già mostrare vivi nella quotidianità concreta, reale, vera e tangibile d’ogni giorno, ci duplichiamo su Facebook, cinguettiamo su Twitter e diventiamo tutti un poco fotografi su Instagram.
Confesso a dio padre onnipotente e a voi fratelli e sorelle del mondo intero che sono un accanito fruitore di uno di questi social-network, quello di Mark Zuckerberg. Lo trovo geniale e al contempo terribile.
Da assiduo ricercatore di interazione, polemiche e dibattiti con controdibattiti nella più veloce immediatezza conseguibile mediante la digitazione di una tastiera, confesso altresì di preferire Facebook a Twitter: 150 caratteri sono pochi per un grafomane, per uno che scrive pensieri per divertimento, passione e godimento allo stato quasi puro.
Se ne evince la motivazione anche in questo articolo senza un senso preciso. Ma non mi interessava ricercare un senso politico (per me il “senso” per eccellenza è spesso e volentieri un “senso” legato alla natura politica dell’essere umano) oggi, eppure confesso per la terza volta un ennesimo peccato: un senso politico queste righe proveranno ad averlo, anche se si stanno spingendo sul terreno della sociologia molto spicciola.
Perché ho scritto tutto questo sproloquio sui “social-network”? Perché in queste ultime ore sono accaduti alcuni fatti che hanno avuto una vasta eco proprio su quelle reti sociali dove si decuplicano, centuplicano e millanta volte si replicano le notizie.
C’è addirittura chi ti informa che l’Ansa ha dato una notizia. Ma, vivaddio, se vorrò sapere cosa accade nel mondo devo aver bisogno del mio “amico” facebookiano per sapere che è caduto un aereo con il coro dell’Armata Rossa, oppure per sapere che è morto George Michael?
Ognuno si masturba mentalmente come può: chi con ossessioni politiche (che sia il mio caso?), chi con manie di persecuzione, chi pubblicando autoscatti (ormai si usa dire “selfie”…) di primi piani propri o di tavole imbandite per Natale, di spiagge bellissime dove si prende il sole anche a dicembre, di vedute fuori dal proprio ufficio o dal proprio balcone di casa.
Ma la morte è un argomento che manda in fibrillazione totale gli utenti di Facebook, Twitter, eccetera, eccetera.
Quando muore qualche “vip”, tutti scrivono, citano canzoni o testi, “postano” foto o fotomontaggi con frasi allegate. Come se la morte fosse qualcosa di eccezionale, che non ci riguarda mai tutti i giorni soltanto perché non ci ha colpito in quel determinato dì.
Mi rendo conto che molte e molti di voi si staranno arrangiando a toccarsi in qualche parte intima individuata come zona scaramantica, ma non voglio portare pensieri lugubri in queste meravigliose giornate di festa.
Vorrei solo che riflettessimo insieme sul significato che i sentimenti, anche quello di percezione della morte altrui o dei propri cari, ha rispetto alla diffusione “sociale” di una notizia che riguarda la dipartita di un amico, di un parente, di una persona cosiddetta “famosa”.
Abbiamo perso l’intimità dei sentimenti, i nostri angoli bui dove tenere, se non nascoste, almeno riparate dal cannibalismo social-mediatico emozioni che devono essere vissute privatamente. Perché non siamo sociali in ogni momento della nostra vita: esistono determinati ambiti e situazioni in cui il silenzio dovrebbe essere quasi un imperativo categorico. Soprattutto quando viene a mancare un parente caro.
D’altro canto, quando si può condividere il dolore, ci sembra di trovare consolazione, attenuazione del medesimo nel comunicare con altri: parlo per esperienza, per dolori anche minori rispetto alla morte.
Le reti-sociali hanno fatto leva su tutto questo, hanno sfruttato il bisogno di comunicazione globale e di spettacolarizzazione involontaria delle nostre vite.
Ammettiamolo: con Facebook abbiamo tutti alzato la nostra asticella di celebrità, la voglia di sentirci apprezzati con i “like”, con le visite, con le condivisioni dei nostri “post”.
Non esistono condanne assolute per nessuna esperienza di vita, se non per quelle stupide autodistruzioni di noi stessi che chiamiamo “guerre”; per questo condividere dovrebbe voler significare costruire insieme qualcosa, fare del singolare un plurale: appunto, il sociale.
Invece questo “sociale” internettiano è l’insieme di tanti piccoli egoismi e personalismi che si vengono esprimendo attraverso la plastica rappresentazione di ostentazioni peregrinanti nelle vite altrui nella pagina “home” di Facebook: ormai è più veloce un social-network a diffondere le notizie che le stesse agenzie di stampa e informazione.
E la morte diventa spettacolarizzazione e lamento al tempo stesso. La morte, ai tempi delle reti sociali, è un fatto pubblico quando riguarda tanto le nostre piccole vite quanto i massacri in Siria.
Questo mettere sullo stesso piano, se non altro utilizzando lo stesso strumento, tragedie personali e tragedie che saranno consegnate al giudizio della storia, visto che del giudizio del presente poco importa al presente stesso, questo bisogno di rendere tutti edotti dei propri fatti personali, anche del dispiacere della morte per George Michael o degli ottantanove componenti del Coro dell’Armata Rossa è il sintomo primo di una grande solitudine individuale che ci colpisce tutte e tutti.
Abbiamo accresciuto solitudine interiore ed esteriore: parliamo sempre meno con i nostri simili ogni giorno. Per strada siamo tutti concentrati sui messaggi e le foto che ci arrivano e non guardiamo più le vie, la gente che ci passa accanto… Nemmeno ci accorgiamo se abbiamo messo il piede su una cacca canina. Questa ultima esperienza magari accadeva anche quando vagavamo per le vie col naso all’insù invece che chinato sui pixel di un cellulare…
La sintesi di tutto questo è molto semplice: stiamo perdendo una umanità di relazioni che erano ancora uno scudo e una protezione contro tanti egoismi sollecitati da paure, incertezze, inconoscibilità di eventi, luoghi, persone che pure fanno parte del mondo. Alle paure che fanno nascere razzismo e xenofobia abbiamo presto associato molta indifferenza.
Persino nelle riunioni politiche ci scambiamo i messaggi per stabilire magari delle strategie da adoperare al momento stesso. I bigliettini, le furtive alzate per andare in bagno e comunicare, o magari le riunioni separate richieste per avere maggiori informazioni, sono ormai un retaggio del passato. Si apre WhatsApp, si mette il silenzioso al telefono e la moderna spionistica azione politica è presto fatta e in corso d’opera.
Dunque, nessuna morale, nessun rimprovero. Solo una amara constatazione dell’alienazione che ci stiamo procurando senza il lavoro come motore della medesima, senza che nessuno sfrutti – apparentemente – le capacità altrui per fare soldi a palate, profitti da incamerare nelle banche.
Morte, alienazione e individualismo indotto sono il contrario del “sociale” e della parola “social”. Cambiamogli nome, non chiamiamoli “social-network” bensì “individual-network”.
MARCO SFERINI
27 dicembre 2016
foto tratta da Pixabay