Una delle consuetudini per un’autobiografia è, volente o nolente, la tendenza del suo autore a cadere o scadere (dipende dal punto di vista del lettore) in un scivolosissimo piano inclinato decisamente agiografico. L’autobiografia rischia così di diventare un autoincensamento, una promozione di sé stessi, della propria esistenza e, in sostanza, delle proprie azioni.
Per questo non ho mai amato molto titoli come: “I miei ricordi” “Autobiografia“, “Le mie memorie“, perché sapevo che, per quanto chi avesse messo mano a quegli scritti si fosse dato come consegna il rimanere il più possibile oggettivo, equilibrato e, quindi, lontano dalle tentazioni di magnificarsi un poco, avrei comunque trovato una obiettività insufficiente tanto nei confronti di sé stesso quanto in quelli della realtà circostante in cui aveva vissuto, agito, condizionato scelte singole o collettive.
Pensavo fosse impossibile che potesse esistere una eccezione a questa regola. Eppure la regola dell’eccezione alle regole stesse si è confermata in tutta la sua validità quando ho letto la prima autobiografia che non voleva essere la storia di una vita, ma soltanto il racconto di una serie di tentativi di scoperta del proprio rapporto con la Verità, con la vu maiuscola, molto assimilabile ad un Dio di cui si è costantemente alla ricerca.
E’ così che Mohandas Karamchand Gandhi ha voluto spiegare il perché era stato quasi convinto a non scrivere della sua vita, ma alla fine ha pensato di mettere insieme, una per una, cronologicamente, le lotte per la libertà.
Dal Sudafrica all’India, dalla nascita della nonviolenza ai satyagraha, dai primissimi confronti con una realtà coloniale che mostrava tutto il suo carattere di superiorità imperialista in una classificazione razzista della società, fino alla lunga pratica di questi princìpi come punti cardinali di una nuova era della resistenza, della ribellione, del cambiamento civile e sociale.
Ed infatti, Gandhi intitola la sua involontaria autobiografia così: “Story of my Experiments with Truth” (“Storia dei miei esperimenti con la Verità“), che nelle molteplici edizioni italiane è semplicemente diventato “La mia vita per la libertà” (Newton Compton editori, 1973, ried. 2021) un titolo che, nonostante paia lontano da quello attribuito dal Mahatma alle sue pagine, ad essere obiettivi non tradisce lo spirito letterale di quanto ha scritto e voluto comunicare al grande pubblico.
Pur essendo lo stile di Gandhi rispondente ad una scrittura piana, lineare, comprensibile – come del resto afferma lui – tanto al bambino quanto all’adulto, le note sono soprattutto necessarie per un corredo di comprensione che ci aiuti ad entrare nell’ottica del mondo indiano ed indù.
Nel descrivere minuziosamente i suoi giorni, dalla fanciullezza alla maturità, il padre della nonviolenza moderna non può sfuggire all’utilizzo di una serie di termini e di nomi che sono intrinsecamente correlati alle istituzioni, agli usi, ai costumi e ai rapporti familiari di un mondo molto lontano dal nostro.
Ma, appunto, il corredo delle note, se attente ed accurate, consente di non smarrire il senso di nessuna riga di un racconto che è altamente spirituale, che ricorda al lettore come un’intera esistenza può essere votata ad una introspezione profonda e, al tempo stesso, senza separarsi dal resto del mondo, diventare un punto fondamentale attorno al quale inizino a gravitare una sequela di nuove critiche sociali, civili e morali, diventando una alternativa culturale, una catarsi nei confronti di una abitudinarietà alla subordinazione che Gandhi vuole oltrepassare e far superare a tutte e tutti.
La sua convinzione più profonda, fin da ragazzo, quando inizia le letture spontanee che lo indurranno a mettere insieme impegno politico, lavoro personale e esame autocritico molto, molto introspettivo, risiede nell’aspirazione alla Verità assoluta; pur sapendo di non potervi arrivare con facilità, non si accontenta di quella relativa, ma la sua ricerca prosegue proprio al pari dello scienziato: prova e riprova, spesso fallisce, altre volte trova le conferme che cercava.
Ed il fallimento è maestro così come lo è quella che, un po’ grossolanamente ed impropriamente, potremmo definire la vittoria. In realtà, Gandhi non vuole vincere su nessuno, ma adoperarsi per migliorare la vita di coloro che sono oppressi, che vivono senza identità, quindi senza dignità, spogliati dei loro averi, del loro lavoro, della loro esistenza.
La sua rivoluzione è prima di tutto “morale“: «Un concetto mi si radicò dentro profondamente – la convinzione che la morale è alla base di tutte le cose, e che la morale è fatta di verità, dunque la verità diviene il mio solo scopo». Se ne potrebbe dedurre con fin troppa facilità che per un marxista come lo scrivente non vi sia nulla di più lontano, di antimaterialista, persino di anticomunista.
Ed invece nella lotta gandhiana per la libertà c’è indubbiamente una parte nettamente spirituale, filosofico-teologico-religiosa, se così vogliamo semplificare; ma c’è soprattutto un desiderio di emancipazione sociale che si lega indissolubilmente alla ricerca della verità come disvelamento dei tanti inganni che le ingiustizie nascondono grazie al dominio di un capitalismo che il Mahatma riconosce come nemico dell’umanità.
Di sé stesso, durante le lotte violente nel Champaran, quando la sua caparbietà lo renderà noto e conosciuto e riconoscibile in tutta l’India britannica, dirà di essere “anarchico“, ma non di certo nel senso più classico del termine e, soprattutto, non nella maniera in cui molti declinavano quel sostantivo o aggettivo, a seconda dei casi e, nella maggior parte di questi, seguendo una contrapposizione fondata sul terrorismo sanguinoso contro gli occupanti colonialisti.
Tutta la vita di Gandhi è segnata da una convivenza tra l’uomo di fede e quello politico, tra l’essere sé stesso e l’essere sociale che vi si esprime. Non c’è un momento in cui si possa trovare una dicotomia, una separazione tra i mondi compresi nel mondo, tra le tante sfaccettature di un’India in cui credenza e superstizione si congiungono, mentre la ricerca ghandiana è rivolta alla piena coscienza interiore per una altrettanto piena coscienza critica esteriore.
Imperscrutabile e oggettivo, immanentismo e trascendentalismo sono per la “grande anima” della nonviolenza un confronto costante, continuo, privo di qualunque soluzione, in incessante divenire. La “ricerca” qui non è tanto proustiano, considerato in quanto attività di recupero del passato, della memoria, del tempo che fu, per affievolire gli affanni di un presente contorto e difficile da affrontare. Gandhi cerca e ricerca dentro e fuori sé quel che più si avvicina a quel Dio che identifica nella Verità e viceversa.
Ogni sua azione è protesa a questo scopo. Anche quelle scelte di carattere più personale che nella vita del Mahatma sono rimaste un po’ occultate, sorpassate dalla sua celebrità per le lotte contro ogni ingiustizia, contro ogni forma di colonialismo, di subordinazione di una libertà ad una volontà altrui. La grande svolta nella vita di Gandhi è la presa di coscienza, molto evangelica, che dalla violenza altro non viene che violenza stessa e si alimenta un corto circuito disumano che annienta tutto e tutti.
Nessun problema si può risolvere con la forza della sopraffazione, dell’aggressione, dell’attacco fisico ed anche morale. Mentre la nonviolenza è un principio scardinatore della coscienze, un deflagrante, pacifico ma decisamente attivo metodo di lotta, e non – come in molti allora, ed anche oggi, credono – una resa passiva, una resistenza più che altro dimostrativa.
Gandhi si propone, con i satyagraha di spingere le masse ad una attenta, acuta rivisitazione dei valori da cui si allontanano nel momento in cui preferisco la materialità delle cose, l’assurdità dei conflitti politico-etnici e interetnici, stabilendo una correlazione privilegiata e naturale tra valori spirituali e valori morali e tra questi e una materialità quotidiana che viene elevata a sublimazione della vita e non a semplice soluzione della stessa.
La sua vita per la libertà è propriamente questo: una catarsi interiore attraverso un avvicendamento incessante di confronti fra sé stesso e il limitrofo, fra sé stesso e la famiglia, la condizione indù in Sudafrica, quella dell’India britannica, quella dell’India che fa fatica a riconoscere dopo la tragedia della “Partizione” del 15 agosto 1947.
Una delle parole cui resta affezionato nel flusso di concetti che mette in fila scrivendo la sua biografia, è “esperimento“. Il combinato disposto degli eventi non viene da lui affidato ad una sorta di casualità fatalista, ma è sempre attenta la sua ricerca meticolosa dei rapporti di forza che nella società prendono corpo e condizionano l’esistenza di ognuno e, certamente, di molti.
Gandhi scrive a proposito: «Gli esperimenti che cito vogliono essere esempi, ognuno potrà fare poi esperienze personali secondo le proprie tendenze e capacità […]. Spero di riuscire a dare una immagine completa degli sbagli e degli errori da me commessi». Le sconfitte civili, sociali e politiche cui va incontro, sfidando governi, imperi e, non di meno, le stesse caste della sua India che resiste al cambiamento, non sono per lui un motivo di frustrazione, ma di apprendimento, di maggiore conoscenza dei limiti momentanei.
Tutto quello con cui si confronta è un esperimento. Ogni azione che decide è un esperimento e diventa esperienza: la radice è la stessa, anche grammaticalmente ed etimologicamente parlando nella nostra lingua. Ed ha un significato, per questo, maggiore rispetto al tema che stiamo trattando.
Proprio così Gandhi, nel mettersi a confronto con ciò che gli è congeniale e lo avvicina alla Verità, così come con ciò che gli è distante e avverso/avversario come un tribunale di Sua Maestà britannica, non si limita a trarne le conseguenze spicciole, pratiche e i risvolti di un mero rapporto tra causa ed effetto. No, lui esige da questi “esperimenti” un riscontro di più alto livello: fare politica è, quindi, per così dire, allenarsi ad una dialettica spirituale e materiale al contempo.
Il Mahatma è quanto di più lontano vi possa essere da ogni forma di dogmatismo, di settarismo, di introspezione autoreferenziale. La sua apertura sul mondo è totale, senza alcuna barriera. Lui è un cittadino indiano ma è prima di tutto un essere umano, un vivente che stabilisce una grande empatia con il resto dei viventi: con gli animali non umani e con la natura intera. Il suo vegetarianismo risponde a quel bellissimo comandamento universale che è: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo».
Con tutte le difficoltà che questo ennesimo “esperimento” comporta: non gli fu facile, ad esempio, smettere di bere latte animale. Così separarsi da una dieta che prima comprendeva quasi tutto. Fu una scelta indubbiamente dettata da una profonda convinzione religiosa che abbracciava un etica molto simile a quella teosofica e che, politicamente e socialmente parlando, la grande anima riassumerà così: «La grandezza di una nazione e il suo progresso morale possono essere giudicati dal modo in cui vengono trattati gli animali».
La libertà, in fondo, scriveva Errico Malatesta rende insaziabili: quando se ne assaggia un pezzetto, si finisce col volerla tutta. E per tutti gli esseri viventi.
LA MIA VITA PER LA LIBERTA’
MOHANDAS KARAMCHAND GANDHI
NEWTON COMPTON EDITORI
€ 3,90
MARCO SFERINI
14 giugno 2023
Leggi anche: