In che cosa si è risolta la mediazione di Biden in Medio Oriente? In un nuovo banchetto di aiuti militari che nelle intenzioni legano strategicamente il Medio Oriente all’Ucraina e all’Estremo Oriente. Come anticipavano le reti tv Usa, dallo studio Ovale nella notte Biden ha annunciato un richiesta della Casa Bianca al Congresso di oltre 100 miliardi di dollari da destinare alla fornitura di aiuti e risorse militari a Ucraina (60), Israele (40) e Taiwan, e al rafforzamento del confine tra il Messico e gli Stati Uniti.
Che nel frattempo mettevano il veto al Consiglio di sicurezza Onu sulla proposta di tregua umanitaria. Il presidente sostiene che i conflitti in Ucraina e Israele costituiscano questioni di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Peccato che mentre si incontravano Putin e Xi Jinping, nessuno a Washington sia in grado di spiegare come mai Israele non mette sanzioni a Mosca e Netanyahu tenga vivo da anni il patto con la Russia che gli consente di bombardare Hezbollah e Pasdaran iraniani in Siria.
Se il viaggio di Biden sia stato un fallimento completo lo sapremo tra pochi giorni rispetto a due obiettivi. Il primo è quello di contenere l’esercito israeliano. Biden non contesta certo a Israele il diritto di difendersi ma gli chiede di rispettare il diritto di guerra. Il secondo obiettivo è quello di evitare un incendio regionale. Il coinvolgimento militare Usa nella regione – due portaerei nel Mediterraneo orientale, bombardieri in Giordania e soldati pronti a intervenire – è un messaggio all’Iran: l’apertura di un fronte a nord con Hezbollah avrebbe conseguenze gravi. La realtà del Medio Oriente gli è esplosa davanti.
I razzi sull’ospedale di Gaza provocando una strage hanno fatto saltare il summit di Amman con il re hashemita Abdallah, il capo dell’Anp Abu Mazen e il generale-presidente egiziano Al Sisi – vertice già complicato per la reazione ai raid indiscriminati sui civili palestinesi. Biden è decisamente un mediatore mancato. E gli Stati uniti da anni, del resto, non sono un mediatore credibile in Medio Oriente.
Mentre le piazze arabe si infiammavano contro Israele e i suoi alleati, i leader arabi hanno voltato le spalle a Washington e alla sua fallimentare politica di questi anni che a cominciare con Trump aveva riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, favorito il cosiddetto “Patto di Abramo” tra le potenze arabe e Tel Aviv, fino a cancellare del tutto la questione palestinese, come se non fosse mai esistita dal 1948 a oggi.
Se cancellare il passato è difficile, lo è ancora di più eliminare le memorie più recenti dei fallimenti americani e occidentali in Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, con una profondità strategica che va dal Golfo Persico al Sahel, passando per il Corno d’Africa, il Sudan e la Somalia. Chi ha visto sul fronte di guerra questi passaggi drammatici lì ha ben presenti. Soltanto l’arroganza, o l’ignoranza, può suggerire che gli arabi non se ne siano accorti.
E così il mondo arabo reagisce. Forse il più duro, nei fatti, è stato proprio il generale Al Sisi (che ieri ha ricevuto il premier britannico Sunak) nemico giurato dei Fratelli Musulmani (ma anche dell’opposizione democratica) che a dicembre ha convocato elezioni presidenziali anticipate. L’Egitto, dato non secondario, è dopo Israele il secondo destinatario degli aiuti militari americani in Medio Oriente e uno egli Stati della regione che intrattiene cordiali rapporti con la Russia di Putin. L’Egitto non ha alcuna intenzione di accogliere gli sfollati in fuga dalla Striscia di Gaza e ha deciso di convocare sabato un summit internazionale per discutere del futuro della questione palestinese.
Al Sisi è stato chiaro: non vogliamo vedere quanto accadde nel 2008, quando nel corso di un ennesimo blocco della Striscia gli uomini di Hamas abbatterono 200 metri del muro di confine che compone il valico di Refah. Un fiume di circa 350mila palestinesi riuscì a sconfinare in Egitto per sfuggire al blocco applicato da Israele 6 mesi prima, quando gli stessi miliziani di Hamas, con un’azione di forza, avevano assunto il controllo dell’intera Striscia.
Non c’è diplomazia che tenga quando è in gioco la sopravvivenza delle leadership arabe. «Se c’è un’idea per sfollare la popolazione di Gaza, c’è il deserto del Negev in Israele», ha affermato con durezza al Sisi nella conferenza stampa con il cancelliere Scholz. L’eventuale sfollamento in Egitto dei circa 1,1 milioni di palestinesi in fuga dalla parte settentrionale della Striscia «sarà seguito dallo sfollamento dei palestinesi dalla Cisgiordania alla Giordania», ha aggiunto il leader egiziano che in piena campagna elettorale non può cedere di un millimetro.
L’unico obiettivo strategico di Tel Aviv, condiviso a questo punto anche dagli americani, oltre a far fuori Hamas, è quello di gettare i palestinesi nel deserto egiziano del Sinai. E se Israele non occupa la Striscia, svuotata di metà della sua popolazione, a chi andrà questo lembo di Palestina? A un screditata Autorità nazionale palestinese? A un protettorato dell’Onu stile Kosovo? Nessuno lo sa dire perché tra Washington e Tel Aviv nessuno ha mezza idea strategica di cosa fare, se non cacciare i palestinesi insieme ad Hamas.
Persino gli americani si sono accorti di questo abominio. Scrive Richard Haas presidente del conservatore Council of Foreign Relations: «Gli Usa devono guardare oltre la crisi facendo pressioni sugli israeliani affinché offrano ai palestinesi un percorso pacifico e fattibile verso la creazione di un nuovo Stato». Niente di più, niente di meno.
ALBERTO NEGRI
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