C’è un nave che dalle coste dell’Africa è costretta in questi giorni, proprio in queste ore, a navigare verso Genova. L’ha deciso il governo di Giorgia Meloni, perché in questo modo la distribuzione dei migranti non si riversa tutta, completamente sulle regioni meridionali, su Lampedusa, sulla Sicilia, sui primi approdi naturali di barche e barchini che traversano il Mediterraneo ogni giorno.
La nave porta con sé circa quattrocento persone. Ci sono donne, bambini piccolissimi. Fa un caldo atroce, il mare sembra pure che dovrebbe agitarsi parecchio nella sua zona tirrenica. Sono previste tempeste e proprio un cambio di clima repentino e violento. Ne sanno qualcosa in Lombardia e in Piemonte dove piogge e venti hanno scoperchiato tetti, abbattuto alberi, trasformato l’aspetto consueto di interi quartieri e comuni.
E mentre la natura cambia il suo corso, la nave va. Col suo carico di sofferenza, di speranza. Costretta a quattro, cinque giorni di navigazione in più. Il tempo, in questi casi, è un carnefice involontario, un torturatore altrettanto tale. Costringe a stare sulla tolda di una imbarcazione che ha lo scopo, come tutte le Ong, di salvare vite umane, di condurle il più in fretta possibile nel primo porto disponibile, un porto sicuro.
Invece il tempo diventa un ostacolo e la nave, da luogo che proietta verso la salvezza, diventa una prigione. Sono per primi comandanti ed equipaggi a denunciare questo scempio.
Di loro si fa dei veri e propri custodi di corpi sofferenti, di anime inquiete, di ferite che si allargano, di lacrime che non smettono di scorrere, di una impossibilità a suturare quelle incongruenze che non sono frutto degli accadimenti, bensì di una precisa, metodica volontà politica.
Il governo Meloni, sfidando le leggi delle migrazioni, che obbediscono ai cambiamenti sociali, economici e davvero strutturale in gran parte del mondo, certamente di quello a noi più vicino, si incaponisce nel voler mostrare e dimostrare di essere avverso ad un processo che nessuno può respingere con le sole piccole mani dell’istituzionalismo, delle decretazioni d’urgenza, delle disposizioni ministeriali.
L’odio è la cifra consistente di una termometrazione dell’esponenziale egoismo che cresce in una società dove le diversità sono oggi stigmatizzate più di ieri.
Qualche traccia di tenue liberalismo, di democristiana originale originarietà e pure di nuova declinazione progressista, resta nelle parole del Presidente della Repubblica, che richiama i valori costituzionali, che apre un dibattito sull’intero Paese sui meriti di politiche così repressive, ostinatamente prevaricatrici nei confronti dei diritti fondamentali. Quelli umani. Quelli di tutte e di tutti.
E’ importante, necessario, utile, ma non è sufficiente. Perché la destra in questa Italia del secondo decennio del nuovo secolo e millennio, ha messo a frutto una mutazione culturale che, a poco a poco, sta sostituendo le parole e modificando i concetti nella loro più intima e intrinseca espressione; li separa e li unisce a seconda delle opportunità politiche e mistifica, altera, disinforma, fa credere che un povero è un pericolo per un altro povero, mentre sui social ministri e imprenditori ricchissimi cercano di difendersi dalle accuse di bancarotta e di sfruttamento.
E intanto la nave va, giorno dopo giorno, aspettando che la tempesta la colga, mentre la tanto declamata “opinione pubblica” non ha una opinione, ma solo tanti piccoli preconcetti che danno vita a grandi pregiudizi.
Il tutto alimentato da un governo che si preoccupa degli interessi dei più ricchi, degli abbienti e riconduce la povertà ad un accidente della Storia, ad una maledizione del presente forse arginabile con qualche rito sciamanico contenuto in una finanziaria dove non ci sarà nessun incremento per la sanità pubblica.
I salari, se non continueranno a stare al palo di una crisi economica italiana dentro la più importante recessione tedesca (il che significa una nuova ondata di aumenti dei tassi di interesse da parte della BCE), entreranno sicuramente in una spirale di progressiva inedia del loro potere di acquisto. Le pensioni li seguiranno a ruota in un autunno in cui la guerra imperverserà, le migrazioni continueranno, ma solo quelle degli africani, dei pakistani, degli afghani e dei siriani verranno dirottate in porti lontani.
Quelle di chi proviene dalla tragedia che si sta consumando nell’Est Europa saranno invece trattati diversamente. Questioni somatiche, culturali, di origine, di ordini dall’alto. E così il razzismo si sdoppia, di triplica, si quadruplica e diventa un elemento di discriminazione nella discriminazione stessa. La Ocean Viking, del resto, non è un treno che viaggia per un percorso obbligato e non derogabile. E’ in balia delle onde.
Le stesse che forse qualche giorno fa hanno ucciso una parte di quei migranti che provenivano da un’Asia, da un Medio Oriente e da un’Africa che una certa retorica imbolsita ha ormai ritratto come endemici teatri di guerre e asfissie disumane irrisolvibili con l’accettazione degli sbarchi e degli sbarcati.
Grecia ed Italia si uniscono nella insana crociata contro un Mediterraneo che offre loro una parte degli effetti crudeli di una globalizzazione invereconda.
Quelli che vogliono respingere gli immigrati sono gli stessi che magnificano il liberismo in tutte le sue espressioni più sadicamente nefaste che, manco a dirlo, si riversano sulla più umile, povera e disorientata umanità al tracollo. Senza diritti umani, senza civiltà se non quella ricordata da un tentativo di revisionismo storico che unisce radici cristiane e giudaiche in una Europa inventata lì per lì.
La nave va, la tempesta arriva. E se non arriva, comunque la tempesta c’è già stata: perché mettersi in mare su dei canotti, delle imbarcazioni di sfortuna, dopo aver pagato migliaia di euro per lasciare il proprio paese, su rotte cammelliere dove il primo approdo è quello di un lager libico in cui vieni torturato, stuprato o stuprata, violentato da tutto quello che ti circonda, dalla fame, dalla sete, dall’odore nauseabondo delle feci e dell’orina, dai pochi stracci che ti sono rimasti addosso, ecco, mettersi in mare e magari non sapere nemmeno nuotare è una tempesta prima della tempesta vera e propria.
Sere fa, in un programma televisivo che mostrava un reportage sulla prostituzione negli Stati Uniti d’America, una giovane nigeriana ha raccontato, ai margini della foresta in cui parcheggia un camper e rischia ogni sera di essere picchiata e/o ammazzata dal cliente di turno, come ha fatto una di quelle traversate del Mediterraneo. Proprio con il terrore di affogare, visto che non sa nuotare.
Lo stesso terrore che hanno le madri per i neonati, per i bambini che non sono in grado di affrontare le onde del Mare nostrum e che sarebbero preda delle correnti e del freddo delle acque.
Ci si pensa veramente poco a tutte queste dinamiche interiori che non vengono fuori se non a drammi avvenuti: quando i cadaveri dei piccoli il mare li lascia pietosamente sulle rive di uno di quei paesi europei che li ha respinti, dopo essere scappati con le loro famiglie, o anche da soli molto spesso, dalla miseria umana, materiale e morale delle guerre e di cento conflitti…
La ragazza nigeriana ha continuato il suo racconto descrivendo un mondo occidentale che è apparentemente libero, democratico, accogliente. Quello che ha incontrato sul suo cammino una donna di colore come lei è stato il traffico delle vite umane, dei corpi, delle anime, l’annichilimento delle proprie emozioni più genuine per rispondere alla necessità di un ferale pragmatismo: vivere o morire. Subire o morire. Pagare o morire.
La Ocean Viking ha la prua verso Genova. Ma nel capoluogo ligure non finirà la disavventura dei migranti. E li sento già quelli pronti all’obiezione che vorrebbe non darci scampo: «Perché partono allora?». E ancora: «Perché non stanno a casa loro e cercano di migliorare le cose?».
E perché non ci sono rimasti a casa loro, qui in Italia, le decine di milioni di italiani emigrati nel corso del Novecento in ogni parte del globo? Perché i razzisti che commentano col loro odio ogni scritto e ogni foto che vuole difendere i diritti universali, le differenze come ricchezza sociale (oltre che individuale), non fanno qualcosa per gli italiani che dicono di voler privilegiare rispetto alle altre “etnie“? Nessuno abbandona la propria terra serenamente per tentare di andare in un paese che non conosce e dove, più che sicuramente, troverà nel migliore dei casi una malcelata ostilità.
Solo in America Latina, tra Brasile, Argentina, Colombia, Equador, Uruguay e Cile ci sono ad oggi più di sessanta milioni di italiani di terza generazione, di italo-brasiliani, di italo-argentini e così via… Negli Stati Uniti gli italo-americani sono stimati in circa diciotto milioni di persone.
Le migrazioni che oggi vediamo provengono soltanto da quelle parti del mondo che sono state sfruttate il più a lungo possibile, dai secoli della prima industrializzazione fino alla fine di quello breve: di un Novecento dove le guerre imperialiste hanno esteso il colonialismo in ogni dove e hanno permesso il capovolgimento degli interessi nazionali di un tempo con nuovi aggregati di consociativismi che hanno finito per duopolizzare il mondo.
La giovane nigeriana che ha passato il Mediterraneo ed è finita in una foresta sperduta, vicino ad un anonimo lago americano, a prostituirsi è o non è il simbolo del fallimento del modello occidentale di sviluppo? E’ o non è una delle risposte al perché i migranti non se ne stanno a casa loro? Perché là si sta peggio, là si muore. Qui si ha la possibilità di farsi sfruttare beceramente da qualche pappone, da qualche organizzazione criminale. Ma si sopravvive.
La Ocean Viking, quindi, tra poco sarà a Genova. E la burocrazia si impadronirà delle vite dei migranti. Li dividerà o li assemblerà. Li dirigerà al Nord o al Sud. Poi, di molti di loro si dimenticherà e li lascerà ciondolare perdigiornamente nelle periferie malate di un degrado sociale quasi inenarrabile. Dove le ragazzine di dieci, dodici anni vengono stuprate dai loro coetanei, mentre tutto intorno c’è il regno della droga, dello spaccio, della piccola e media criminalità.
Dove la scuola, come lo Stato, è la grande assente nelle vite di questi ragazzi che non hanno altro punto di riferimento se non la sciatteria immorale delle loro famiglie affiliate alla camorra. Noi ci facciamo dettare dal governo l’agenda etica di una politica che non risolve i problemi se non dal punto di vista del privato, del profitto, dell’alta finanza, delle banche e delle imprese.
Dobbiamo ricostruire una nuova stagione della cultura della solidarietà sociale, del pubblico e delle dinamiche che può innescare una condivisione larga dei problemi del nostro tempo. Un tempo che è nostro solo per poco. Ciò che lasciamo alla generazioni future è un carico di responsabilità che non si sarebbero meritate. Nemmeno dalla presuntuosa, altezzosa prosopopea del moderno capitalismo di rapina, perché una risposta uguale e contraria avrebbe dovuto compensare questo disastro italiano, europeo e globale.
Il governo è parte del problema. Se non siamo la soluzione tutte e tutti noi, chi dovrebbe esserlo?
MARCO SFERINI
27 agosto 2023
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