In queste settimane di invasione dell’Ucraina da parte della Russia la memoria va ad altri periodi della storia europea. Per esempio a Willy Brandt (all’anagrafe Herbert Ernst Karl Frahm), nome di battaglia assunto nell’esilio in Norvegia a iniziare dal 1932, nato a Lubecca nel 1913, morto a Unkel sul Reno nel 1992, personaggio mitico della storia del movimento operaio della Germania prima federale e poi unificata (fece in tempo a vedere la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989).
I riflettori si sono riaccesi di recente su questo protagonista del Novecento grazie all’Università di Udine, Dipartimento di lingue e letterature, che ha promosso nei giorni scorsi l’incontro pubblico con il tema «L’attualità degli Ostverträge di Willy Brandt. Modello per la pace in Ucraina?», relatrice Birgit Kraatz, in collegamento da Amburgo.
Corrispondente da Roma per molti anni del settimanale tedesco Der Spiegel, e autrice del libro/intervista con Brandt Non siamo nati eroi (Editori Riuniti, 1987), testimone tra l’altro degli incontri che ci furono tra il leader tedesco ed Enrico Berlinguer, segretario del Pci.
Figlio di una ragazza-madre di origini operaie, militante socialista dal 1931 (simpatie giovanili per un gruppo trotzkista), Brandt ritornò in Germania alla fine del 1945 dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola dalla parte repubblicana.
Deputato al Bundestag nelle file del Partito socialdemocratico (Spd) dal 1949 al 1957, sindaco/borgomastro di Berlino ovest dal 1957 al 1966, presidente della Spd dal 1964, vicecancelliere e ministro degli Esteri dal 1966 al 1969, cancelliere della coalizione social-liberale dal 1969, ideatore della politica di Ostpolitik che ricollocava il tema della questione tedesca nella strategia di distensione Est-Ovest, premio Nobel per la pace nel 1971, dopo che con i trattati di Mosca e di Varsavia del 1970 la Repubblica federale tedesca aveva riconosciuto le conseguenze geopolitiche e territoriali della Seconda guerra mondiale.
L’assillo di Brandt – ha spiegato subito Kraaz – era il Muro costruito nel 1961 che divideva la Germania e non si poteva abbattere. Bisognava invece, secondo lui, stabilire rapporti culturali, economici e umani tra le due parti.
Con l’apporto decisivo del consigliere politico Egon Bahr prese forma un’altra politica rispetto alla contrapposizione Est-Ovest, che partiva dal presupposto che non si poteva continuare a negare l’esistenza della Germania comunista.
Le elezioni del 1969 misero la politica estera al primo posto nell’esperienza del governo liberale e socialista guidato da Brandt. In quell’occasione – ha spiegato Kraaz – il neocancelliere argomentò efficacemente la nuova politica che doveva stabilizzare la pace.
«Il popolo – disse nel discorso di investitura – ha bisogno della pace nel pieno della parola». C’era in quelle parole il riconoscimento dei disastri provocati dal passato nazista. Per la prima volta si prendeva atto che le Germanie erano due e che da parte dell’Ovest bisognasse intavolare normali rapporti con quella dell’Est, oltre che con Mosca e Varsavia.
«Le trattative con Mosca furono difficili, ma il cancelliere non si arrese. Brandt andò a Mosca nell’agosto 1970. È lì che venne firmato l’accordo che riconobbe la realtà che si era venuta a creare insieme ai nuovi confini europei», ha ricordato Kraaz.
«La riconciliazione con la Polonia era considerata l’architrave della nuova politica di distensione da parte di Brandt», ha continuato la relatrice. L’immagine simbolo della Ostpolitik è proprio l’inginocchiarsi del leader socialdemocratico – il 7 dicembre 1970 – davanti al monumento che ricorda la rivolta del ghetto ebraico a Varsavia. L’anno dopo fu concluso l’accordo di «transito» tra le due Berlino che permetteva ai cittadini della parte occidentale di visitare l’altra metà della Germania, cosa che non avveniva facilmente dal 1945.
«Questa politica di Brandt incontrò la forte opposizione della destra della Cdu che non voleva riconoscere la nuova realtà», ha annotato Kraaz. Il che testimonia il coraggio politico di Brandt, che trovò opposizioni anche nel suo stesso partito.
Nel 1972 fu evitata la crisi di governo solo per due voti. Poi si aprirono le ambasciate nelle due Germanie, sia a Ovest sia a Est: sancivano il successo della Ostpolitik che è continuata per anni anche con incontri tra Brandt ed Erich Honecker, leader della Germania Est.
Nello stesso 1972 ci fu la conferma elettorale di Brandt con una grande mobilitazione popolare e intellettuale. Quell’anno la Spd – ha raccontato Kraaz – ottenne oltre il 45 per cento dei consensi con una partecipazione al voto che superava il 90. Bisogna anche ricordare, infine, che l’ascesa di Brandt arriva dopo «il programma di Bad Godesberg» del 1959 con cui i socialdemocratici tedeschi rinunciarono ai richiami al marxismo ortodosso e accettavano le logiche del mercato oltre che della società capitalista.
Quel modello di Ostpolitik può servire nell’epoca dell’invasione russa dell’Ucraina? «Forse sì, anche se oggi Kiev non ha interlocutori della statura politica e morale di Brandt. Ma gli obiettivi finali devono essere la pace e la distensione come lo furono nella politica del leader socialista», è la risposta di Birgit Kraatz.
Brandt si dimise da cancelliere nel 1974 dopo la scoperta che uno suoi segretari (Günter Guillaume) era una spia della Germania Est. Restò poi presidente del suo partito fino al 1987. Fu eletto nel 1976 presidente dell’Internazionale socialista e poi deputato al Parlamento europeo dal 1979 al 1983. A iniziare dal 1977 ha presieduto la Commissione internazionale per lo studio delle relazioni economiche tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo (nel 1980 fu pubblicato il «Rapporto Brandt» che faceva il punto sul problema).
La caduta del Muro di Berlino a cui ha moltissimo contribuito Willy Brandt è stata gestita – ironia della storia – dai moderati Helmut Kohl e Angela Merkel.
ALDO GARZIA
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