La guerra un anno dopo, sempre più grande e globale

I confini della guerra si allargano. E non si tratta della linea del fronte sul terreno ucraino. Qui si intende proprio la geopolitica stessa del conflitto che, nel giro...
Al confine tra Moldova e Transnistria

I confini della guerra si allargano. E non si tratta della linea del fronte sul terreno ucraino. Qui si intende proprio la geopolitica stessa del conflitto che, nel giro di una settimana, dopo incontri, discorsi alle nazioni, ai propri settori di pianeta e al mondo intero, mostra una estensione globale delle dinamiche nei rispettivi campi.

L’Occidente atlantico, euro-americano che mette le sue bandierine inequivocabilmente su Varsavia e su Kiev; l’Oriente putiniano e l’Estremo Oriente cinese che si avvicinano in quanto a sostegno militare vicendevole oggi, per non trovarsi domani da soli contro l’impero a stelle e strisce.

Da ultimo, attorno allo scenario di guerra, le truppe di stanza nelle provincie ucraine occupate dalla Russia i soldati del Cremlino sono ormai oltre 350.000 e altri 150.000 starebbero addestrandosi nelle caserme. Le testate nucleari di ultima generazione sono pronte ad essere esibite come deterrente (è lo sconfortate unico augurio che ci si può realmente fare…), anche se il discorso del “conflitto esistenziale” per Mosca non lascia presagire nulla di positivo in merito.

In ultimo, la revoca del decreto putiniano che stabiliva il riconoscimento della sovranità della Moldavia sulla Repubblica della Trasnistria, l’ultimo Stato ex sovietico ad avere ancora nel suo emblema la falce e martello e la stella rossa, storicamente schierata con la Russia dopo il 1989 e ospitante un contingente russo di almeno 1.500 uomini oltre che leggeri mezzi militari, pone un terzo fronte probabile della guerra sul campo.

Alla vigilia di qualunque invasione di terra, oppure per creare un diversivo, dicono anche i manuali militari, ma soprattutto ce lo dice la Storia, che si paventano attacchi e provocazioni reciproche per giustificarsi a vicenda nel caso una delle due nazioni attacchi l’altra.

Se si prende una cartina geopolitica e si fa una analisi anche sommaria di quanto avvenuto in questi giorni, tra le visite di Biden, Meloni e oggi Sanchez a Kiev e Varsavia, tra i discorsi di Putin e i tavoli aperti con Pechino, la prima osservazione che ne consegue è proprio quella testé accennata: il conflitto si allarga su due piani, netti e non contrapposti; anzi, esattamente propedeutici l’uno all’altro nel portare avanti una tattica di superamento di una stagnazione che da mesi si registra sul fronte est e, ancora di più, su quello meridionale in Ucraina.

Non è poi escluso che, proprio in occasione del primo anniversario di inizio della cosiddetta “Operazione speciale” i russi vogliano far partire una nuova offensiva militare per accattivarsi ancora di più una opinione pubblica che – a detta dei cronisti anche occidentali (quella della RAI in primis) – si sta solidificando attorno alle parole del presidente Putin, perché vede nella minaccia NATO e USA alla Russia la vera ragione della guerra.

Ed in parte questa visione è corretta: il conflitto in atto da un anno in Ucraina e dal 2014 nel Donbass è il crudele gioco strategico di due poli imperialisti che si contendono una visione e una divisione delle aree più influenti del pianeta e che, da qualche tempo a questa parte, devono fare i conti col terzo incomodo, con quella Cina che, per i pregressi scontri con gli USA e per gli interessi che mantiene con il gigante russo sul piano economico (soprattutto tecnologico e militare), è ovviamente propensa a sostenere Mosca in una escalation del conflitto.

Per questo, la Transnistria può diventare il terzo fronte, tanto da parte della NATO contro Mosca, quando da parte di quest’ultima come enclave russa ai confini del territorio dell’Alleanza atlantica, tracciando una linea di divisione ben demarcata dai vecchi confini tra URSS ed Europa nel 1946.

Non è la riproposizione di uno schema bipolare tra potenze che si guardavano in cagnesco da un lato e dall’altro della “Cortina di Ferro“. Nulla di tutto questo. E’ forse qualcosa di peggio, perché qui nessuna guerra è congelata, in attesa che scoppi.

Qui la guerra è scoppiata e si sta espandendo a macchia d’olio. Senza azzardare paragoni storici, se si mettono a confronto l’Europa e il mondo degli anni ’50 del Novecento e quelli di oggi, non è assurdo affermare che vi è maggiore globalità nel riarmo odierno, nell’emergenza umanitaria, nella possibilità di un coinvolgimento di intere nazioni in un conflitto di cui non si vede la fine.

Le ragioni imperialiste che sono alla base della guerra passano in secondo, terzo, quarto piano nell’informazione omologata dei grandi gruppi editoriali, sia televisivi, cartacei o web. Le posizioni pacifiste e quelle di apertura al dialogo tra le parti vengono ridicolizzate, trattate come infantilismi politici e puerili ingenuità di chi non si rende conto di quali interessi vi siano davvero in gioco in questo momento nel pianeta.

Si richiamano i cittadini ad un sano pragmatismo che guardi al popolo ucraino e, nel nome della sofferenza di questo popolo, continuare a fare la guerra perché – questo è il refrain – “c’è un invaso e c’è un invasore“. Una oggettività che non determina a priori le ragioni del conflitto: bisogna scavare a fondo, cercare le cause e i conseguenti effetti.

Dopo un anno dall’ingresso delle truppe russe sul territorio ucraino, dopo la fallita battaglia di Kiev e lo stazionamento del fronte sul Donbass e sulla riva meridionale del Dnepr, anche i più schierati tra gli osservatori occidentali e filoamericani devono riconoscere che nessuno dei due grandi blocchi imperiali è in grado di prevalere.

Il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore congiunto dell’esercito degli Stati Uniti d’America, non proprio uno che non ne sa nulla di militarismo, bellicismo, tattica e strategia, ha osservato che sarà tanto difficile che la Russia possa vincere la guerra quanto che l’Ucraina possa riconquistare i territori attualmente in mano a Mosca.

Di certo c’è che, col sopraggiungere della primavera, l’offensiva russa potrebbe riprendere e i punti a favore del Cremlino sul tavolo di una eventualissima trattativa sul cessate il fuoco, per aprire un negoziato di pace, sarebbero indubbiamente prevalenti rispetto a quelli cumulati dal governo di Kiev al servizio della NATO e degli USA.

La risoluzione che l’ONU si appresta a votare, pur non essendo vincolante per gli Stati membri, ha un indubbio valore politico: ruota attorno alla oggettiva e ovvia condanna dell’invasione russa dell’Ucraina; richiede il ritiro delle truppe di Mosca da tutto il territorio di Kiev e tiene conto soltanto degli effetti di un conflitto che dura dal 2014 nel Donbass.

Una premessa era d’obbligo in questo frangente, perché le Nazioni Unite non possono fare finta che il governo di Volodymyr Zelens’kyj non abbia agito contro la popolazione russofona nei due oblast orientali di Donestk e Lugansk.

E non dovrebbe soprassedere, se davvero fossimo in un consesso di Nazioni Unite, democratiche e aperte ad un vero processo di pace, soltanto per i popoli e non per i governi, i comandi militari e i mercanti di armi, sul fatto che la NATO abbia avvicinato i suoi confini alla Federazione russa, divenendo una minaccia per la stessa.

Sul tradimento degli accordi di Minsk deciderà la Storia con la esse maiuscola. Sul ruolo dell’Italia, invece, possiamo discuterne in tutta franchezza: dentro l’ambito europeo, che è il minimo indispensabile sul piano internazionale per il confronto tra le varie potenze, cosa rappresenta davvero il nostro Paese?

O per meglio dire: la maggioranza di governo esiste ancora sul sostegno a Kiev o le parole di Berlusconi prima e di Zelens’kyj poi, in uno scambio di insulti al vetriolo, saranno il punto di origine di nuove fibrillazioni tra il putinismo del Cavaliere nero di Arcore e la Presidente del Consiglio?

In realtà, il ruolo dell’Italia in tutta questa guerra, di cui non si vede la fine ma solo nuovi invii di armamenti sempre più pesanti, è di una comprimarietà persino impropria. Impossibile pretendere che l’esecutivo si schieri come terzo tra le posizioni europee, che si sintetizzano bene solo quando si tratta di rifornimenti di gas ed energia, e si faccia promotore, magari proprio all’ONU di una via diplomatica.

Il viaggio di Giorgia Meloni a Kiev è, da questo punto di vista, emblematico: la leader di una forza politica che, solo pochi anni fa, era schierata su posizioni esattamente opposte a quello che abbraccia oggi dagli altari del pragmatismo di governo, intende mantenere la barra dritta sulla completa fedeltà italiana all’Alleanza atlantica e a Washington.

Una bella giravolta trasformistica: dalle convenzioni iperconservatrici trumpiane, dal retrogusto amaro di un antisistema a tratti eversivo, alle compatibilità più evidenti dell’azione di un governo tra gli altri governi, entro il perimetro della completa accondiscendenza europea verso l’Occidente che, del resto, rappresenta in larga parte.

Ma la guerra di allarga e, dopo un anno, tocca i confini della Moldavia, punta alla discussione dell’invio di caccia militari (i carri armati non sono ormai un tabù più da mesi per il sostegno a Kiev) e all’infrangimento del dominio aereo russo sull’Ucraina. Anche questo, come dall’altra parte la minaccia atomica, è un salto di (s)qualità del conflitto.

Europa ed ONU sembrano davvero attori passivi di questo pasticcio inestricabile che causa migliaia di morti ogni mese, che lascia soltanto il popolo ucraino (e in parte quello russo) a subire le conseguenze del cinico risiko sulla ridefinizione delle zone di spartizione imperialista del globo.

Persino la Turchia, affaccendata con il sisma catastrofico che ha devastato la sua zona meridionale, è temporaneamente fuori dai tentativi diplomatici; mentre Israele, sempre più a destra, sempre più nazionalista, ormai ha scelto da che parte stare.

Il conflitto si espande, mentre i discorsi di Biden, Putin, Meloni e Zelens’kyj smerciano retorica e propaganda a tutto spiano. Di pace non parla nessuno se non la sinistra e il mondo cattolico. La sinistra cosiddetta “radicale“, non il PD che, Schlein o non Schlein, intende rimanere fedelissimo alleato politico dell’occidentalissimo invio di armi senza se e senza ma…

MARCO SFERINI

23 febbraio 2023

foto: screenshot

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