L’ordine di arresto della Corte penale interazionale (Cpi) nei confronti di Vladimir Putin per la deportazione in Russia di bambini ucraini è stato accolto con apprezzamenti positivi, talvolta trionfalistici, da parte dei governi e di molti opinion makers. Non pochi giuristi, però, avanzano perplessità sugli effetti di tale atto, che può creare più problemi di quanti ne risolve. Fermo restando che l’aggressione russa ha commesso e sta commettendo crimini non solo in danno dei bambini ma più in generale crimini contro l’umanità.
Il provvedimento limita notevolmente la libertà di circolazione di Putin, giacché ognuno dei 123 paesi che hanno ratificato la Convenzione del 1998 è obbligato ad arrestarlo, mentre non hanno obbligo, ma facoltà, i Paesi che non l’hanno ratificata (Cina, India, Pakistan, Israele, Turchia, Stati Uniti, oltre alla stessa Russia). Al di là dell’aspetto simbolico, certamente penalizzante per l’immagine interna e internazionale del capo del Cremlino, l’atto del procuratore dell’Aia non sembra destinato a modificare di molto la possibilità di movimento del presidente russo, già drasticamente ridotta dalla guerra in atto.
L’interrogativo principale è quello che Daniele Archibugi ha posto su questo giornale il 18 marzo, evidenziando la peculiare tempistica di questo provvedimento adottato prima della conclusione della guerra: quale può essere il ruolo della giustizia penale in questo conflitto? Quale concreto effetto avrà il mandato di arresto sulla guerra di aggressione russa all’Ucraina?
Il rischio rilevante è che questo astratto esercizio di potere giurisdizionale aumenti l’indisponibilità di Putin verso qualsiasi negoziato, sia per speculare simmetria con gli Stati uniti e la Nato che hanno bocciato la proposta cinese senza neppure discuterne i contenuti, sia perché l’eventuale partecipazione alle trattative di pace aumenterebbe il pericolo di facilitare l’esecuzione dell’arresto.
Fonti russe hanno già avvertito che nessun negoziato potrà mai avviarsi senza la revoca del mandato di arresto. Condizione evidentemente improponibile: l’azione penale, dopo il concreto avvio con l’incriminazione e l’ordine di arresto di Putin, non è negoziabile se non al prezzo della totale perdita di credibilità della Cpi. Va infatti ricordato che la Corte processa individui e non Stati e quindi l’accertamento dei fatti e la responsabilità degli accusati non può mai costituire oggetto di negoziato politico.
Qualcuno ha osservato che, in caso di reale possibilità di avvio di trattative, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite potrebbe utilizzare – con il consenso di tutti i 5 componenti permanenti (Russia compresa) – il potere di sospendere il processo per un anno, sospensione rinnovabile (articolo 16 Statuto Corte).
L’inconsistenza di tale soluzione è lampante: Putin dovrebbe prestare il suo consenso «al buio», senza poter avere alcuna certezza né speranza di chiusura del processo.
Per dare un senso al provvedimento del Procuratore dell’Aia (volendo scacciare il malizioso sospetto che l’anticipazione dell’atto sia originato dall’intento di impedire ogni possibilità di negoziato), si può ipotizzare che essa costituisca una pressione sulla dirigenza della Federazione russa per la sostituzione di Vladimir Putin (precedente Karadzic, ex presidente dell’Entità serbo-bosniaca), sempreché possa avere fondamento la speranza che il sostituto non abbia la stessa visione nazionalista e imperialista.
La verità è che non possiamo e non dobbiamo illuderci che la guerra possa essere fermata dalla Corte penale. Appaiono esercizio di vuota retorica le dichiarazioni del presidente statunitense Biden sulla necessità di processare Putin «criminale di guerra». Più credibili sarebbero quelle parole se accompagnate dalla ratifica del trattato istitutivo della Cpi da parte degli stessi Usa che, oltre a non avere ratificato quel trattato, non hanno perso occasione per ostacolare l’attività dei giudici dell’Aia.
Il diritto penale sanziona i crimini già commessi, riaffermando il valore delle regole di convivenza internazionale. Ma oggi è urgente porre fine alle immani sofferenze sopportate dal popolo ucraino e dai giovani militari russi mandati al macello da Putin.
Alla fine della guerra non si può giungere con la propaganda e tanto meno con le minacce, ma operando per dare nuova credibilità alle istituzioni internazionali e per promuovere, senza pretesa di egemonia, accordi multilaterali capaci di infrenare le rispettive pulsioni bellicistiche e realizzare intese di pace, a cominciare dal mantenimento della sicurezza nucleare.
È urgente la cessazione immediata delle atrocità in atto e dello scontro armato. Ogni giorno che passa aumentano le difficoltà, perché crescono le sofferenze, si moltiplicano le atrocità, si accumulano gli odi reciproci che continueranno a covare anche a guerra finita, mettendo le premesse per nuovi conflitti e nuove guerre. La guerra va fermata subito con la politica.
Se ne convincano i governanti e lavorino per questo obiettivo.
FRANCO IPPOLITO
Presidente della Fondazione Basso
foto: screenshot