Alcuni giorni fa il governo italiano ha dirottato 4,6 miliardi di euro, dei 5,8 previsti per l’innovazione verde nel settore dell’automobile, verso il paniere della spesa militare. Sostanzialmente ha investito nell’economia di guerra ancora una volta, confermando la tendenza più che marcata delle destre di preferire la logica dello scontro a quella dell’incontro, dell’ostilità a quella della pace, dell’investimento disumano e antiecologico rispetto al preferire una economia di svolta in chiave prettamente ambientale.
È una scelta dirimente che, caso mai ancora ve ne fosse bisogno, enumera, sottolinea, rimarca e mette in ottimo rilievo il servaggio cui l’esecutivo pone il nostro Paese nei confronti della ricetta neo-atlantista, guerrafondaia e imperialista sul terreno tanto continentale quanto più largamente occidentale: dalle sponde della Repubblica stellata fino ai confini del Donbass. Ed è una scelta che, purtroppo, rientra con estrema coerenza nei dettami di un progetto di stabilizzazione europea all’ombra degli Stati Uniti d’America senza se e senza ma.
Il tutto mentre infuria il conflitto in Medio Oriente e l’Europa non mette un briciolo di impegno nel tentare la via diplomatica, nel premere, per quel che le è naturalmente possibile, nei confronti di Washington, vero ed unico soggetto capace, sulla scena internazionale, di fermare le atrocità israeliane, il genocidio in corso a Gaza, l’apartheid neocolonialista in Cisgiordania e l’invasione dello Stato sovrano del Libano. Mentre tutto questo avviene sotto gli occhi di un mondo in preda alle catastrofi ambientali, un altro inverno di guerra europea preme ai confini dell’incedente autunno.
Il gelo nelle ossa dei soldati ucraini e russi permea ogni punto della linea del fronte che avanza speditamente proprio nelle regioni di Lugansk e Donetsk, senza più incontrare quell’energica resistenza di Kiev che, nei proclami di Volodymyr Zelens’kyj, si sarebbe dovuta tradurre nuovamente in una controffensiva di vasta portata. Niente di tutto questo; mentre noi continuiamo a finanziare l’invio di armi al pari di Francia, Germania, Stati Uniti e paesi NATO che stanno abbarbicati al gigante russo.
Più si allunga la linea temporale della guerra, più è chiaro un po’ a tutti che il destino dell’Ucraina è affidato, più che al suo governo fantoccio, dipendente quasi in tutto dalle ragioni americane e nordatlantiche, da una serie di fattori esterni alla stessa politica e che riguardano poi le vere ragioni per cui il conflitto è nato, si è sviluppato e si è infiammato nuovamente due anni e mezzo fa.
Queste ragioni, nemmeno a scriverlo e a dirlo, concernono fattori-attori di natura economica e finanziaria, rapporti tra i grandi poli liberisti mondiali che hanno aperto nel nuovo millennio la fase della contesa mondiale. Gli esperti militari parlano ormai di una “guerra di attrito“, quindi di una prossimità delle operazioni belliche che genera di continuo un botta e risposta su scala tutt’altro che vasta: con un fronte che si muove sempre più verso il Dnipro e che, quindi, concede alla Russia ben più di un’arma strategica per gestire la fase postguerra.
Benché se ne parli poco, il problema della ricostruzione è lì sul tappeto e richiama le attenzioni degli affaristi che non hanno alcuna fretta nel vedere finire la operazioni militari: più si distrugge, più si avrà da ricostruire. Un po’ similmente alla ciniche risate di chi al telefono, un po’ di anni fa, si fregava le mani dopo che il terremoto all’Aquila aveva raso al suolo interi paesi, provocato decine e decine di vittime, lasciato senza casa migliaia e migliaia di persone.
La guerra opera similmente agli effetti sismici, salvo per il fatto che è intenzionalmente provocata dagli uomini e non è, quindi, un accidente della natura che esprime la sua potenza in movimenti sussultori e ondulatori. Stati Uniti, Cina e Russia osservano lo svolgersi degli eventi conflittuali con circospezione, prestando attenzione ad una rimodulazione geopolitica che interessa tanto l’Est europeo quanto la Palestina, Israele e i rapporti con l’Iran e l'”asse della resistenza“; così come la parte asiatica del confronto passa per l’asse nordcoreano-taiwanese.
Se una sempre maggiore omogeneità di interessi cementa il dualismo tra Mosca e Pechino, la stessa cosa non si può dire sul piano europeo: anzitutto perché lo squilibrio è evidente. Gli Stati Uniti considerano e trattano l’Unione dei Ventisette come una propria appendice, una protesi dei propri interessi nel settore geopolitico che va fino alle porte del Medio Oriente. E poi perché, effettivamente, il controllo della NATO è statunitense e l’Europa non esercita alcuna comprimarietà in questa come, in passato, in altri passaggi cruciali.
Per tutti basti ricordare la guerra nei Balcani e la subordinazione assoluta tenuta dal nostro Paese, come da molti altri Stati europei, nei confronti di Washington durante la conduzione di un conflitto che ha centuplicato le problematiche ex-jugoslave, alimentando le tensioni etniche, culturali, sociali, religiose. Non era profetico l’assunto per cui, alla fine della guerra, in Ucraina la sconfitta sarebbe stata palpabile ad iniziare dalle macerie materiali lasciate sul campo.
Il tema dell’origine della guerra, che serve ad alcuni per giustificare la risposta della NATO, ad altri per fare la stessa cosa con Putin, non è una questione semplicemente storicizzabile per poterne trarre un po’ di verità, per scoprire dove davvero inizia il conflitto e dove altrettanto veramente può avere termine. Capire le ragioni (anche qui si fa per dire…) che hanno dato avvio al conflitto è premettere anzitutto i motivi che divengono sempre più morale universale per giustificare interventi armati da parte del cosiddetto “mondo libero“.
L’etica di fondo, che tende a sostituirsi all’analisi politica, sostiene un principio di superiorità democratica dell’Occidente nei confronti delle autocrazie, dei regimi autoritari, delle teocrazie e di tutti quei sistemi di gestione degli Stati che non sono complementari alle regole liberali del mondo che ci riguarda direttamente. La questione imperialista moderna, dunque, si pone unitamente ad una declinazione dei valori che, più che apparire per quello che sono, ossia dipendenti da una ispirazione strutturale economica del neocapitalismo liberista, viene spacciata come esercizio di esportazione democratica.
L’Italia dell’era meloniana, oltrepassando i confini della propaganda comiziale sul patriottismo moderno e sul sovranismo, esplicita una sempre più forte condivisione di interessi nella quadrangolazione con Washington, Kiev e Tel Aviv. C’è una vocazione neoimperiale che non è esclusiva e che riguarda tanto la parte occidentale del pianeta quanto quella orientale che si organizza nei BRICS: si tratta di due elaborazioni e visioni di lungo termine nettamente distinte, volte ad un confronto obbligato.
Nessuna delle due metà, nel multipolarismo che si espande, ha intenzione di mettere in discussione il sistema capitalistico nel suo insieme. Nemmeno la Cina che si dichiara ancora “comunista“. Sarà per realpolitik, sarà quindi per interessi pratici e schiettamente economici, ma l’ideologia pare poter convivere disinvoltamente con il contrario reale di sé stessa. A dimostrazione che dietro ogni conflitto esiste ed esisterà sempre, oltre alla cosiddetta “ragion di Stato“, in primis una ragione strutturalmente fondata sull’impianto del potere monetario, sui rapporti di forza tra le classi e il governo, sul mantenimento dello status quo.
Mosca e Teheran, ad esempio, mai sono state vicine l’una nei confronti dell’altra come lo sono oggi, ma permangono tutte quelle questioni irrisolte che hanno come comun denominatore l’accesso a risorse primarie, a fonti energetiche, alla loro commercializzazione e diretta distribuzione anche verso quelli che si possono, senza ombra di alcun dubbio, considerare i nemici sul campo. Del resto, gli Stati caucasici e quelli che interessano direttamente i corridoi della nuova “via della seta”, sono detti petrostati, proprio perché posseggono giacimenti minerari, impianti petroliferi e passaggi di gasdotti che vanno dall’Estremo oriente fino ai confini dell’Europa.
Mosca si mantiene ambigua nella attuale contesa tra Teheran e Tel Aviv: l’inimicizia pregressa lascia parzialmente il posto alla necessità di avere nella regione un partner strategico che, oltretutto, sia la prima pedina utile per giocare la partita antiamericana e antioccidentale, sfruttando anche le doppiezze turche dell’imperialismo neo-ottomano di Erdoğan a metà tra la NATO e l’appoggio ad una parte dell'”asse della resistenza” capeggiato dall’Iran.
La complessità di tutta questa rete di relazioni e interazioni è tale da mostrare chiaramente la reciprocità dei rapporti multipolari: nulla può essere dato per scontato e nettamente separato dal suo opposto. Gli interessi economico-finanziari e militari sono tanti e tali da impedire una bipolarizzazione che, infatti, non viene data più per scontata: nemmeno dalla piuttosto facile dicotomia tra Occidente e BRICS. L’Italia, per quanto ancora possa dirsi settima potenza mondiale, sta ai margini dell’Europa e del resto del mondo.
Il suo protagonismo non è nemmeno più affidato al punto di geostrategicità dell’asse mediterraneo, della centralità che ha nel Mare Nostrum e, quindi, di base di stazionamento e di passaggio tanto delle politiche espansioniste degli States quanto delle merci che provengono da est, dalla via della seta. Si indebolisce, del resto, anche il rapporto diretto tra Parigi e Berlino, risentendo della stanchezza economica frutto del logoramento bellico, del protrarsi della guerra, dell’aumento di risorse da dare a Kiev che non vince perché, oggettivamente, sic stantibus rebus non può prevalere su Mosca.
La “guerra per procura” ha fallito e ha prolungato soltanto le sofferenze dei popoli, zimbelli inconsapevoli dei poteri che si affrontano sul campo e nelle intermediazioni finanziarie così come nei blocchi economici e nelle sanzioni che falliscono l’obiettivo di rallentare la crescita dell’orso russo. I contraccolpi del dopoguerra si faranno sentire duramente negli ambiti sociali e peserà sempre di più la ricostruzione sulle casse di una Ucraina distrutta, portata al tracollo dalla scelta di campo dell’occidentalizzazione di territori da sempre nell’orbita di Mosca.
Questo riflusso negativo ci farà conoscere stagioni di crisi verticale che piomberanno come macigni sulla tenuta di una società già largamente impoverita e frastornata dalla pandemia prima e dal moltiplicarsi dei conflitti poi. La risposta preventiva dovrebbe essere, ad iniziare ormai dalla prossima legge finanziaria, l’opposto di quello che oggi è stato decretato dal governo e proposto al Parlamento: diminuire la spesa militare, riconvertire il tutto in finanziamenti per il sociale, per una riduzione delle diseguaglianze, per una convergenza tra economia, lavoro e ambiente.
Ma la guerra, così come l’economia di guerra stessa, è l’esatto contrario ed è, per ora, la speranza che industrie degli armamenti e della ricostruzione hanno, insieme alla commistione colpevole dei governi, di avere un successo profittuale mai visto. Pazienza se moriranno ancora decine di migliaia di persone. Intanto quelle saranno a costo zero: nessuna vita potrà mai essere ricostruita.
MARCO SFERINI
31 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria