La guerra, la pace, la morale e il battito d’ali di una farfalla

Qualcuno ha scritto di rimpiangere i virologi onnipresenti in televisione. Le immagini della guerra in Ucraina sono un martellamento sulle coscienze soprattutto nostre, di chi non ha nelle mani...

Qualcuno ha scritto di rimpiangere i virologi onnipresenti in televisione. Le immagini della guerra in Ucraina sono un martellamento sulle coscienze soprattutto nostre, di chi non ha nelle mani il potere, fiumi di denaro e cordate di azioni da vendere e scambiare nelle transazioni finanziarie in borsa.

L’amoralità del capitalismo si somma alla spregiudicatezza del potere politico e, unitamente al fervore nazionalistico che sostiene il militarismo più acceso, forgia quel contesto in cui ogni sofferenza diviene una variabile dipendente soltanto dall’interesse complessivo che si crea e che finisce per autoalimentarsi vorticosamente, diventando una nuova saldatura tra struttura economica e sovrastrutture statali, politiche, religiose e quindi anche culturali.

Il clima, in cui l’accettazione della guerra si fa largo tra le masse, viene preparato proprio grazie ad una interconnessione tra una serie di privilegi che devono tenersi stretti gli uni con altri: ogni conflitto armato finisce per ridisegnare non solo i confini degli Stati ma, in particolar modo, le sfere di influenza di nuove fette di mercato, di nuove intromissioni imperialistiche di un potere dentro un altro (ex) potere, di un governo e di una oligarchia che lo mantiene in vita nei confronti di una classe dirigente in rovina, detronizzata o trascinata nella polvere delle strade dalla forza brutale delle armi.

Se si applica questa modesta disamina dello svolgersi delle guerre e del loro ruolo dentro questa società liberista, si potrà, chiaramente evincerne che si ripete sistematicamente ogni volta che una potenza economica, politica e militare apre un fronte di guerra contro una determinata parte del mondo.

Non si tratta veramente mai di attacchi a singoli Stati. Nella fattualità ovviamente sì, perché si deve trovare un pretesto per potersi prendere ciò cui si aspira e che è di proprietà di altri o che è illecito procurarsi se non con la forza. Ma, a ben guardare, attorno agli obiettivi ufficiali stanno tante altre appetibilità territoriali, ricchezze materiali e valori nel buio del sottosuolo nonché sul bordo estremo della terra.

Le guerre sono moralmente abiette, una delle peggiori espressioni di autolesionismo del genere umano, eppure restano uno dei mezzi plurimillenari con cui ci facciamo largo tra di noi per avere più occasioni di sopravvivenza, di predominio e più possibilità, quindi, di poter vivere a discapito di altri nostri simili un’esistenza migliore. La questione etica rischia di cadere nella mera retorica se si pensa di fermare questi istinti primordiali degli animali umani con l’anatema tanto laico quanto religioso contro i signori del conflitto, i tiranni di turno che si esercitano nel cinismo più riprovevole.

Eppure, almeno per la legge dell'”effetto farfalla“, se un suo battito d’ali può generare altrove chissà quale fenomeno, visto che tutto si tiene al mondo, che tutto è connesso oggi più che mai, probabilmente anche una piccolissima azione sviluppata da un punto di partenza etico è in grado di dare avvio ad un processo molto più grande delle stesse intenzioni e speranze di chi vi ha dato avvio.

Più che altro, questo è un inno ad una riconsiderazione delle nostre singole capacità, delle peculiarità di cui disponiamo, per metterle al servizio di una causa che ha bisogno dell’originalità di ciascuno e di tutti. La globalità del villaggio moderno trova una valorizzazione in particolare in una traduzione positiva di un concetto che, per molti decenni, ha descritto con grande capacità sintetica gli aspetti negativi del capitalismo mondiale e della sua espansione planetaria.

La guerra, ogni volta che si affaccia sulla incedente attualità del nostro vivere, ci dovrebbe scuotere da una apatia antisociale che ci pervade ogni volta che ci troviamo davanti ai corsi e ricorsi di una politica nazionale priva di mordente civile, spregiudicatamente antisociale e languidamente ripetitiva nell’affermarsi come novità assoluta rispetto al passato, mentre ne ricalca, in forme e modi differenti, le stesse tratteggiature, i viatici conosciuti, distruggendo qualunque speranza, qualunque passione, qualunque voglia di impegno personale per tornare a credere che davvero “un altro mondo è possibile“.

Il rischio di illudersi è sempre dietro l’angolo: quando questa guerra sarà finita, per qualche giorno il tam tam delle televisioni e dei social si complimenterà con Tizio, con Caio e con Sempronio. Plaudirà alla straordinaria resilienza umana, alla capacità di adattamento alle difficoltà e alla resurrezione di questo e di quel contendente, provando a dimostrare che un senso etico tuttavia esiste e che, nonostante tutto, dai conflitti si esce. Come? Migliori, ovviamente.

Qualcuno avrà imparato una lezione, altri avranno imparato come fare soldi sui cadaveri dei civili e dei soldati, ed altri ancora penseranno che questa sarà stata l’ultima guerra e che il nostro nome dovrà essere “mai più“. Ma senza mettere in discussione il mondo in cui le guerre nascono e si sviluppano, senza tradurre l’impegno morale in un impegno sociale, politico e civile, non si potrà pretendere un cambiamento radicale dell’umanità: i vizi e le contraddizioni di fondo continueranno ad esistere e genereranno altri conflitti. E’ inevitabile perché è nel DNA del capitalismo e del liberismo moderno.

Il potere economico e il potere politico sono levatrici delle guerre e lo sono colpevolmente, si intende, ma rischiano di apparire quasi come ineluttabili accidenti capitati al genere umano e di cui è impossibile disfarsi: pena altri sovvertimenti, altre rivoluzioni (che sono qualcosa di molto diverso dalle guerre di aggressione e dall’imperialismo) e quindi altri sconvolgimenti che devono essere evitati. Magari per via democratica, chiedendo al potere di riformarsi, di mutare, di disconoscere parte di sé stesso e di diventare addirittura proprio altro da sé.

E’ una pretesa che solo un fideistico attaccamento ad una devozione esagerata per le potenzialità della morale umana può sostenere. Solo un approccio del tutto ingenuo, quasi benevolmente puerile e fanciullesco può coltivare la speranza e affidarsi ad essa messianicamente augurandosi il meglio dal futuro. Tanto vale sgranare un rosario, pregare e confidare nelle divinità, evitando però poi di maledire la politica che non sa cambiare lo stato di cose esistente.

L’impegno di ognuno di noi per cambiare questa società e questa umanità, deve unire etica e azione, se vogliamo dirla con Mazzini (che non era certo un socialista…) deve coniugare “pensiero e azione“, morale e politica, aspirazioni e concretezze immediate, idealità e pragmatismo. E’ l’arte dello sviluppo di una condivisione tanto dei problemi quanto delle soluzioni che si prospettano per superarli.

Siamo andato un po’ fuori dai confini della guerra in Ucraina, ma forse è un bene: perché avere bene in mente cosa rappresenti una guerra non vuol dire farsi totalizzare da questi pensieri, ma distaccarsene criticamente e cercare il modo per dare avvio a processi che abbiano quel plusvalore che altri non hanno, quella caratteristica che li rende storicamente dati e determinati.

Questo valore, che tocca a tutte e tutti noi mettere nella volontà con cui traduciamo la nostra umanità in forza creatrice del futuro, è l’irreversibilità di conquiste che non devono poter essere messe in discussione.

Sapendo bene che non esiste, in fin dei conti, nessuna conquista, nessun diritto veramente al sicuro dalla perturbabilità delle mutazioni sociali, antropologiche e dalle dinamiche inaspettate che una comunità tanto nazionale quanto di più ampia portata, può vivere o subire.

Per oltre settant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, le forme statali erette a guardia degli interessi nazionali e continentali hanno retto al contraccolpo dell’apertura di nuovi conflitti tra i popoli europei. La guerra nella ex Jugoslavia ha aperto, a suo tempo, una breccia in un consolidamento tradizionale più che in una volontà immarcescibile fondata sulla sacralità di una promessa, di un patto, di una qualunque convenzione.

Le porte moderne del nostro tempio di Giano si sono chiuse per molti decenni e sono state riaperte quando è crollato il bipolarismo mondiale e le occasioni del mercato di diventare veramente globale si sono spalancate anche sul Vecchio continente.

Dopo la fine della guerra balcanica, era parso che la geopolitica dei conflitti si spostasse a sud e ad est, ma molto ad est: Medio Oriente, Asia… Le frontiere delle conquiste della materna democrazia americana stavano in Africa, nella Mezzaluna mesopotamica e tra questa e la Cina. Abbiamo sottovalutato i conflitti non guerreggiati direttamente: primo fra tutti l’espansione della NATO verso la Russia, ed ora siamo alla resa dei conti.

Il quadro forse si è fatto più chiaro adesso. Abbiamo molti più elementi per valutare, cominciando dalla lezione storica sui prodromi del nazionalsocialismo e della tragedia mondiale che ne è derivata. Sommando a tutto questo tutta un’altra serie di valutazioni sulle espansioni economiche e sulla sempre più precaria salute del pianeta, non diventa difficile fare due conti sulla risicata sopravvivenza della disgraziatissima specie umana.

Insomma, abbiamo tutte le carte per decidere da che parte stare e quale impegno assumerci. L’etica non ci impone niente se non siamo noi a volere quel cambiamento che inizia da una visione radicalmente capovolta di tutto quello che ci accade intorno e ci costringe a sopravvivere piuttosto che a vivere.

MARCO SFERINI

27 febbraio 2022

foto: screenshot

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