Peggio del padrone che lo comanda è il servo che non si ribella. Recita così un vecchio adagio che si perde nella notte dei tempi. Proprio come quello che è divenuto il “mito” di Spartaco e che, invece, grazie alle numerose fonti testuali che ci sono arrivate da oltre duemila anni fa, è parte della Storia dell’Urbe e del suo impero.
Era inevitabile, fonti o non fonti, che un generale degli schiavi entrasse nella leggenda, perché l’enormità dei fatti che tra poco accenneremo soltanto è tale da non sfuggire a questa sorte implacabile e, tuttavia, assolutamente positiva: per la memoria di una grande sollevazione contro la più imponente e anche crudele autorità organizzata del tempo e, quindi, in pratica contro un intero mondo che si reggeva da più di cinquecento anni su una lotta fra le classi inanellata dall’eterno confronto tra patrizi e plebei.
Affascinante per l’eroicità degli atti che comportò, la guerra servile contro l’esercito di Spartaco e quello che diverrà un vero e proprio popolo, fu il colpo più duro assestato alla stabilità dello Stato romano: una sfida dirimpettaia all’autorità senatoria che era anche emanazione di quella nobiltà che temeva la grandezza numerica della plebe e che, tuttavia, imponeva con suo predominio economico, politico e militare i propri privilegi sui diritti di tutti.
Per Laterza è uscito nel 2011 un bel libro dello storico statunitense Barry Strauss: “La guerra di Spartaco“. Vale la pena di leggerlo con attenzione perché è una delle migliori trasposizioni fatte in questi ultimi anni della storia del gladiatore divenuto capo di una armata che tenne testa alle legioni organizzatissime di Roma e che, per un momento, fece sognare agli schiavi quella vita libera che non avevano mai avuto.
La lettura sorprenderà anzitutto perché ci porta un po’ lontano dal mito e ben dentro i fatti. Il riferimento bibliografico è ricco di citazioni di opere che sono, prima ancora degli elaborati successivi, quindi dei secoli posteriori alla fine della repubblica prima e dell’impero poi, direttamente i testi dei quasi coevi delle imprese narrate: Appiano con le guerre civili narrate ne “La storia romana” (per la precisione nei libri dal XIII al XVII); le parole di Cicerone contro Verre, ex propretore siciliano accusato di concussione, tra le cui righe si ritrovano importanti riferimenti alla rivolta spartachista; Floro con l'”Epitome di storia romana” e, naturalmente, la “Vita di Crasso” narrata da Plutarco.
Come già accennato, le fonti non mancano, per cui a Strauss è stato possibile ricostruire minuziosamente la guerra degli schiavi contro Roma o, se volete, la guerra dell’Urbe contro gli schiavi, contro i gladiatori che li avevano liberati città dopo città nel sud di una Italia infiammata dall’eco delle diserzioni dagli ordini dei padroni, di tanti che fuggivano e non si facevano più trovare mentre, attraverso boscaglie e sentieri raggiungevano nei dintorni di Capua e del Vesuvio quella che era divenuta una sorta di antica “comune” sociale.
Nella spigliatissima introduzione, che ci regala anzitempo il metodo di analisi ed anche l’usus scribendi dello storico americano, sembra di essere dentro un film. Per la precisione in quello splendido capolavoro di Stanley Kubrick (non considerato come “proprio” film dal regista e nemmeno da una certa parte della critica) in cui Kirk Douglas, forse calcando un po’ troppo la tonalità degli accenti caratteriali del gladiatore trace, aveva sovraesposto sé stesso a Spartaco medesimo.
Tuttavia, il film di Kurbick ha contribuito enormemente a ridare al mito del ribellismo gladiatorio una attualità insperata, spingendo generazioni e generazioni ad interessarsi a quella strana vicenda lontana nei millenni, là dove il potere di Roma pareva incontrastato e destinato – come fu – a crescere, a consolidarsi intorno al Mediterraneo e a costituire per i secoli successivi il punto di riferimento dell’intero mondo occidentale.
Che si parli e si discuta del mito di Spartaco non è un male. A patto che non si finisca per dimenticare come realmente si sono svolti i fatti. In questo, il libro di Strauss ci soccorre prontamente. Si può leggerlo guardando Kubrick e si può, viceversa, guardare Douglas leggendo la guerra narrata da Strauss. La compenetrazione è interessante e lo si afferma con cognizione di causa, per esperienza diretta. Non è uno dei pochi casi, ma certamente uno di quelli in cui qualcosa in più della semplice narrativa, una ricerca storica documentata si sposa con la fedeltà di una pellicola.
La Settima arte e il metodo storico messi a confronto in questo frangente non stonano, non si combattono, non si rimbrottano di poca duttilità l’una nei confronti dell’altra o di poca aderenza alla realtà degli accadimenti nel loro svolgersi logicamente cronologico. Altrettanto utile è l’approfondimento che si suggerisce con le note bibliografiche. Se non Appiano o Floro, almeno la lettura di Cicerone e di Plutarco è consigliata per avere l’eco della voce di allora, di ciò che si pensava, si diceva e si scriveva della più grande rivolta di schiavi mai conosciuta da parte del Senato e del Popolo Romano.
Le insegne delle legioni vengono strappate ai comandanti che, non una volta sola, si fanno trovare assolutamente impreparati al compito. L’incarico che il Senato dà loro è di assoluta fiducia, ma la sottovalutazione è un dato che diventa sempre più assodato mano a mano che la armate vengono distrutte e di loro resta qualche brandello di mantello impolverato, tanti corpi da seppellire, nessuna certezza su cosa potrebbe accadere se l’esercito dei gladiatori e degli schiavi puntasse su Roma.
E quell’esercito, effettivamente, arriva ad una settimana di marcia dall’Urbe. La minaccia incombe, il Senato fa fatica a mantenere anche l’ordine pubblico e la stabilità dello Stato. Le fazioni impazzano, soprattutto quando una crisi si acuisce. Poi, questa, non è una delle solite guerre civili che ai romani è toccato far fronte nel corso della loro lunga epopea. Qui è una classe sociale diversa da quella romanamente intesa che si sottrae al comando tanto del singolo aristocratico padrone quanto dello Stato nella sua interezza.
Si comprenderà che il problema è più grande di quello che potessero immaginare i contemporanei di allora appena sentirono parlare di una rivolta dei gladiatori in una scuola di addestramento in quel di Capua. Se all’inizio la sottovalutazione del nemico (anche di classe) è quasi completa, col passare del tempo si ridimensiona ma non scompare mai del tutto.
Non si tratta soltanto di una incomprensione sul piano militare della forza dell’esercito di Spartaco. Sallustio, nelle sue “Historie” lo scrive apertis verbis: «Spartaco, lungi dall’esaltarsi per i suoi successi, si preoccupò seriamente di disciplinare la rivolta di cui era a capo. Così promulgò leggi e regole tendenti a mantenere l’ordine». A quello che sta diventando un popolo in rivolta, il riconosciuto capo dà un ordinamento e lo rende comune a genti che, fino ad allora, erano vissute in regimi tradizionali all’inizio della loro esistenza e poi, dopo essere stati sottomessi dai romani, sotto l’egida di un potere tirannico e schiavistico.
Il Senato ha, quindi, un problema in più di cui non si accorge: si sta creando una società alternativa che, almeno per un anno e mezzo, tra il 73 e il 72 a.C., si contrappone alla res publica fino ad allora esistita, all’unica concezione dello Stato antico che, dopo l’esempio della democrazia ellenica, è il solo modello che si impone e che resiste perché ingloba e comprende, pur governando e soggiogando.
Gladiatori e schiavi sono esseri umani e, quindi, solo per il fatto di conoscere ora una nuova vita non significa che siano dimentichi delle pulsioni che animano l’istinto predatorio, proprietario e accumulatore dell’individualità egoistica. All’esercito ribelle servono spade, picche, coltelli, asce. Servono metalli per poterle fare, perché quelle strappate agli eserciti di Roma non bastano. E la guerra si fa con le armi, non a mani nude. Così la società spartachista si organizza e forgia tutto ciò che gli serve.
Strauss lo evidenzia molto bene nei capitoli in cui tratta le antiteticità tra Roma e i ribelli: la prima è un potere vecchio che è stanco di sé stesso e cerca una modernità che non trova; i secondi sono, a loro modo, degli innovatori. Troppo per dei tempi così ancorati ad una visione esclusivamente aristrocratica dell’esistenza. Per cui è inconcepibile per un patrizio non avere dei servi. Chi lavorerebbe altrimenti? È un dato di fatto, una ovvietà che oggi, giustamente, ci appare bizzarra, ma per comprendere la rivolta di Spartaco dobbiamo pensare come lui o, almeno, provarci.
E farlo vuol dire immaginare le sofferenze di una vita passata sotto le armi di Roma prima e sotto la schiavitù gladiatoria poi, con il timore di affrontare ogni giorno la morte. Una morte che avrebbe regalato la gloria. Un po’ come la promessa del paradiso da parte delle chiese che dispensavano benedizioni a chi si andava a fare scannare nel nome di Dio in Terrasanta contro Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb, meglio noto come “il feroce Saladino“.
Per questo l’accostamento tra Settima arte e Storia narrata da Strauss è un felice incontro che determina, alla fine, il miglior modo per avvicinarsi alle guerre servili nell’antica Roma. Concordano gli studiosi nell’affermare che la rivolta di Spartaco mise l’Urbe in seria difficoltà al punto da paventare un crollo delle istituzioni e un ricorso a qualche forma di armistizio. Rimane e rimarrà un mistero il perché il generale-gladiatore abbia rinunciato, un po’ come Annibale, a marciare su Roma quando ne aveva l’opportunità.
Si spinse a nord, vinse, affrontò difficoltà, imprevisti e poi tornò al sud, fino a Reggio Calabria dove Crasso, nominato risolutore ultimo della grave vicenda ribellistica da un Senato in preda a disperazione e panico, strinse d’assedio l’esercito del comandante trace ma senza un successo evidente. Anzi, quel vallo creato per imprigionare Spartaco e i suoi tra l’ultimo lembo d’Appennino e lo Stretto di Messina, venne oltrepassato in un punto fragile. La minaccia puntava di nuovo su Roma.
Ma ormai la stanchezza aveva logorato anche i più valorosi. Chi voleva tornare in patria, chi smettere di combattere e chi, invece, seguitare ancora. Qui la Storia si fa prepotentemente mito, perché ai fatti subentrano le supposizioni. Persino sulla morte del grande ribelle non c’è certezza: sulla croce lungo la via Appia come ripreso da Kubrick oppure direttamente sul campo e con un corpo tanto irriconoscibile per il martirio da divenire anonimo e sparire nella leggenda di una sepoltura introvabile?
Se un giorno si troverà qualche certezza in merito, la Storia si arricchirà di nuovi elementi. E magari il cinema riproporrà un finale diverso, ma pur sempre molto, molto entusiasmante nella sua epica tragicità.
LA GUERRA DI SPARTACO
BARRY STRAUSS
LATERZA, 2011
€ 12,00
MARCO SFERINI
12 giugno 2024
foto: “Spartaco”, scultura opera di Denis Foyatier (1830), Museo del Louvre, Parigi
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