Fuori dalla stazione dei treni di Salonicco due manifesti di Syriza e uno del partito comunista Kke ricordano timidamente l’approssimarsi delle elezioni politiche. È qui che la sera del 28 febbraio scorso sarebbe dovuto arrivare l’Intercity 62 partito cinque ore prima da Atene. Alle 23.22, invece, si è schiantato frontalmente contro un treno merci vicino al paesino di Tempi: 57 morti, il peggiore disastro ferroviario di sempre per la Grecia.
Ultima fermata. «La città dei fantasmi», così lo storico britannico Mark Mazower ha definito Salonicco nella sua opera monumentale. Si riferiva ai 30mila abitanti musulmani mandati in Turchia nel più grande scambio di popolazione che la storia ricordi, circa 2 milioni di persone esattamente un secolo fa, e ai quasi 50mila ebrei deportati nei campi di concentramento nazisti nel 1943, lontano dalla città che avevano governato per secoli.
L’impatto sul voto dei fantasmi dei Tempi, invece, è uno degli interrogativi principali della campagna elettorale appena conclusa. Secondo uno studio del politologo Yannis Mavris alle manifestazioni successive alla tragedia hanno preso parte 2,5 milioni di persone, il 30% della popolazione con più di 17 anni. Numeri che richiamano le grandi mobilitazioni contro memorandum e austerity, anche se stavolta le proteste si sono esaurite in poche settimane.
«Chiediamo al popolo greco di votare per motivi etici, non per interesse. Ricandidare quell’uomo è una provocazione», dice Maria Karystianou, presidente dell’Associazione vittime dell’incidente. A Tempi ha perso una figlia: aveva 20 anni.
«Quell’uomo» è Kostas Karamanlis, rampollo di una famiglia che ha influenzato profondamente la storia politica greca. Un omonimo parente, fondatore di Nea Democratia (Nd), è stato quattro volte primo ministro e due presidente della Repubblica. L’epigono pronipote era ministro dei Trasporti quando i treni si sono scontrati. Dieci giorni prima aveva detto al parlamento che non esistevano problemi di sicurezza. Dopo l’incidente si è dimesso. Ma il leader di Nd Kiryakos Mitsotakis ha deciso di ricandidarlo.
Al terzo binario è arrivato l’Intercity 53 diretto nella capitale. Carrozzeria e sedili blu, sul fianco la scritta: «Hellenic Train. Ferrovie dello Stato italiane». La Troika aveva chiesto di privatizzare il trasporto su rotaie già nel 2010. Per primi sono iniziati i tagli al personale: i 12.500 lavoratori del 2000 sono diventati circa un sesto vent’anni dopo. Poi nel 2013, governo Samaras (Nd), le ferrovie sono finite in un fondo per la liquidazione delle proprietà pubbliche.
Nel 2016, governo Tsipras (Syriza), è stata accettata l’offerta di Trenitalia: 45 milioni di euro. Relativa solo ai servizi passeggeri, cioè ai vagoni. Binari, sistemi di sicurezza e personale sono in mano ad altre compagnie. Nel 2021 un nuovo accordo con il governo di Nea Dimokratia ha ridotto del 90% gli investimenti che la società italiana si era impegnata a fare al momento dell’acquisto.
Spezzettare il sistema è stata una precondizione della svendita su cui ha insistito anche la Commissione europea. Secondo Christos Retsinas, ex responsabile della sicurezza di Hellenic Train, la divisione delle operazioni tra linee ferroviarie e treni ha fatto chiudere il centro di controllo unificato, aumentando i rischi per i passeggeri. Prima dello scontro le due carrozze motrici si sono corse incontro per 12 minuti lungo lo stesso binario, senza che niente o nessuno se ne accorgesse.
Mitsotakis ha cercato di tenere bassa l’attenzione sulla vicenda durante tutta la campagna elettorale. Martedì scorso, però, i familiari delle vittime hanno presentato una denuncia contro 17 tra esponenti politici e amministratori delle società coinvolte. Chiedono di indagare sugli ultimi 15 anni di gestione. Il caso è riesploso.
A bordo dell’Intercity ci sono turisti, migranti e greci. Dopo circa un mese di stop i treni hanno ripreso a circolare. A velocità ridotta. Uno al giorno. Da lunedì scorso le corse sono diventate quattro. La carrozza è piena a metà. Maria e Nikos, il cognome non vogliono dirlo, stanno tornando a casa, a Larissa. Lei per votare, lui no. «Ho messo la croce sul simbolo di Syriza con molta convinzione fino al 2015. Fino al terzo memorandum.
L’ho fatto controvoglia nel 2019. Ma stavolta non la voto. Anche se spero Mitsotakis perda», dice Nikos. Ha 30 anni e tra l’impiego come rider e vari lavori occasionali può arrivare a 550 euro al mese. Maria studia fisica e tre sere a settimana lavora in un bar: «Voterò Syriza perché non voglio altri quattro anni di estrema destra», taglia corto senza entusiasmo.
Tradizionalmente il voto giovanile, che per la prima volta riguarda chi ha 16/17 anni, è più orientato a sinistra. Sono 438.595 le ragazze e i ragazzi aggiunti all’elettorato dopo le ultime politiche (su un totale di quasi 10 milioni di elettori). Non tutti, però, potranno infilare la scheda nell’urna. Molti studiano o lavorano lontano da casa e non esistono sconti o permessi per tornarci. Nd ha respinto le proposte per semplificare l’accesso ai seggi presentate da diversi partiti di sinistra.
Tra l’elettorato dei due schieramenti politici resta anche una forte differenza di classe. Uno studio condotto su un campione di oltre 4mila elettori dall’analista politico Petros Ioannidis e dal professore di politica comparata dell’università di Panteion Gerassimos Moschonas giudica «impressionante» il confronto tra i bacini delle due principali formazioni: il 79,6% di chi vota Syriza è insoddisfatto della propria situazione economica contro il 26,9% degli elettori di Nea Dimokratia (media nazionale 60,1%).
E infatti il partito di Mitsotakis «è molto più forte nella classe alta, medio-alta ma anche media», mentre per Syriza avviene l’opposto: è sovrarappresentata nelle classi medio-bassa e bassa, incontra maggiori ostacoli nelle altre.
Ad Atene la primavera è arrivata in ritardo ma inizia a farsi sentire. Uscendo dalla stazione il sole accende il giallo della fila di taxi che attendono i passeggeri e quello del carretto di un venditore di Kuluri, un grande tarallo ricoperto di sesamo buono a qualsiasi ora.
In pochi minuti a piedi si arriva a Exarchia. Sui muri del quartiere, insorto nel 2008 dopo l’omicidio di Alexis Grigoropoulos da parte di un poliziotto e diventato il centro dei movimenti greci ed europei tra il 2010 e il 2015, i manifesti anarchici invitano allo «sciopero del voto». La novità, però, è nella piazza recintata per i lavori della metro e circondata giorno e notte dai celerini.
Fino a poco tempo fa avevano difficoltà persino ad avvicinarsi a questo luogo. Delle sei occupazioni di rifugiati nate dopo gli arrivi in massa del 2015 ne resta solo una. Le altre sono state sgomberate. Tre sono diventate Air BnB, come moltissime case e interi palazzi della zona, spesso acquistati da fondi di investimento stranieri. I prezzi sono aumentati rapidamente e i turisti sostituiscono i residenti.
Tutti i sondaggi, su cui però la fiducia è scarsa, danno Syriza diversi punti dietro Nd. Il partito di governo sarebbe tra 32-38%, l’altro poco sotto il 30%. Seguirebbero Pasok (centro-sinistra) al 10% e poi Kke, Mera25 di Yanis Varoufakis e l’ultradestra di Soluzione greca. Si vota con il proporzionale assoluto e per governare da soli serve circa il 46%. Altrimenti coalizione, ma non se ne vedono all’orizzonte. Almeno per ora.
Il rischio è un binario morto dei partiti. Solo nel caso in cui Syriza arrivasse primo si aprirebbe qualche possibilità, soprattutto di alleanza con il Pasok. Nd vuole governare da sola, convinta di poterci riuscire al prossimo giro: se nessuno ottiene la fiducia si tornerà al voto, tra fine giugno e inizio luglio, con un sistema elettorale diverso che garantirà un cospicuo premio di maggioranza. Basterebbero il 36% dei voti per un esecutivo monopartito.
Oltre al disastro ferroviario nella campagna elettorale ha tenuto banco lo scandalo delle intercettazioni a esponenti dell’opposizione, vertici militari e religiosi che chiama in causa il governo uscente. Nd conta di trarre vantaggio dall’aumento di pensioni e salari minimi e dai sussidi distribuiti, spesso a società e oligarchi amici, con i fondi Ue.
«Votare per noi significa: aumento dei salari; protezione della prima casa per chi è indebitato; riduzione delle tasse; un governo giusto ed efficiente», dice Tsipras nel comizio conclusivo, in una piazza Syntagma affollata ma non piena. Fa un discorso più radicale di quello della stragrande maggioranza dei partiti europei di sinistra che ambiscono a governare e non solo a restare all’opposizione. Promette che alzerà la spesa sanitaria dal 4% al 7% del Pil. Che farà tornare pubblica la compagnia dell’energia elettrica.
Che investirà nel sistema educativo statale. «Assumeremo insegnanti, non poliziotti», dice. Si rivolge direttamente ai giovani, li invita a votare per il loro futuro, per punire una destra corrotta e reazionaria. Poi punta l’area politica alla sua sinistra: «non è vero che siamo uguali a Nd, provate a dirlo ai lavoratori guardandoli negli occhi». «L’unico modo per cacciare Mitsotakis è votare Syriza», conclude. L’obiettivo è chiaro: giocare la carta del «voto utile» per polarizzare la frammentazione delle sinistre e convincere anche chi non condivide più la sua linea politica.
«Syriza al governo è stata costretta a implementare misure impopolari e molto dure per i cittadini. Ma non poteva fare altrimenti. Alcuni non hanno perdonato il partito, neanche adesso che è all’opposizione. Ma ho la sensazione che una buona parte lo voterà comunque perché avrà di fronte l’alternativa Mitsotakis o Tsipras», riflette Sotiris Maniatis, direttore di Efsyn, quotidiano di sinistra che esprime posizioni pro Syriza.
L’economista Haris Golemis, con un passato professionale nella Banca centrale greca e uno politico al fianco di Tsipras fino al 2017, riconosce una netta differenza tra il programma neoliberista di Nd e quello socialdemocratico dello sfidante. Ma è scettico che quest’ultimo possa essere davvero realizzato. «Syriza non contesterà la direzione generale che viene dall’Europa. Tenterà però di condividerne il peso in maniera più egualitaria», afferma.
Del resto il partito non incarna da tempo quel potenziale di rottura che sull’onda delle piazze greche gli aveva permesso di moltiplicare per sei le preferenze nel 2012 e andare al governo nel 2015. Dopo la sconfitta nei negoziati di otto anni fa e la firma del terzo memorandum si è candidato a incarnare la governabilità oltre che il governo. Ha spostato la sua linea politica in direzione del centro e persino rincorso Nd nelle retoriche nazionaliste verso lo scomodo vicino turco.
Il discorso sulla «rottura» ambisce a rappresentarlo Varoufakis, che da questo conta di ottenere un buon risultato. Con proposte economiche e sociali molto radicali e l’idea che – anche attraverso il piano Dimitra, cioè una sistema per generare transazioni pubbliche autonome – si possa tornare al tavolo per mettere in questione le politiche di austerità. In caso di fallimento, pur non dicendolo apertamente, l’ex ministro delle Finanze rimane convinto sia preferibile uscire dall’eurozona piuttosto che restare legati per sempre ai diktat delle istituzioni finanziarie europee.
Gioca a suo sfavore una congiuntura persino peggiore di quella del 2015. In Grecia non esiste una mobilitazione generalizzata come in quel periodo, ha vinto la rassegnazione allo stato di cose presenti. L’asse politico nei paesi membri e negli organi comunitari si sta spostando sempre più a destra. La grande attenzione verso la penisola ellenica è sparita. Se l’Europa della violenza economica neoliberista si faceva ad Atene, quella del riarmo bellicista si fa a Varsavia.
Intanto i principali indicatori economici sembrerebbero indicare un lento miglioramento della situazione: durante il governo di Nd il rapporto tra debito pubblico e Pil è sceso di circa 10 punti percentuali, fino al 170% (sebbene in termini assoluti non sia migliorato); tra il 2019 e il 2022 la disoccupazione è calata dal 17,31% all’11,9% e il prodotto interno lordo è passato da 173,3 a 184,6 miliardi di euro; per il prossimo anno la Commissione prevede un’ulteriore crescita del 2,4%, la quarta dell’Ue.
«I numeri prosperano, ma le persone soffrono», diceva Georgios Papandreou fondatore e storico leader del Pasok. La sensazione diffusa tra i greci è che le cose continuino a peggiorare. «Il Pil cresce grazie a investimenti stranieri e privatizzazioni che non portano benefici alla popolazione – spiega Golemis – L’inflazione, che riguarda soprattutto affitti e beni alimentari, colpisce duramente chi ha un reddito basso. Il coefficiente di Gini, misura delle disuguaglianze, è tornato a crescere con il governo di Nd. Le classi più basse si trovano in una situazione economica peggiore di quella dell’inizio della crisi finanziaria».
I memorandum sono finiti nel 2018 ma salari, diritti e condizioni di vita sono lontani dal periodo precedente al collasso economico. E stavolta, dopo tante sconfitte e governi di ogni colore, è difficile immaginare cambiamenti tangibili. La Grecia rischia di trovarsi su un altro binario morto, quello sociale. There is no alternative, si diceva. In parte sembra più vero che mai. In parte, nonostante tutto, non lo è.
GIANSANDRO MERLI
foto tratta dalla pagina Facebook di ΣΙ.ΡΙΖ.Α.