La Giornata della Memoria è così di estrema attualità che sarebbe utile convertirne il nome in “Giornata della troppa dimenticanza”.
Ciò che per molti anni ci è sembrato giusto e sacrosanto dover ricordare, per non ripetere la tragicità della Seconda guerra mondiale, con oltre 54 milioni di morti, oggi va letteralmente ristudiato, rimparato, acquisito tramite i giudizi della storia e attualizzato attraverso i molti, troppi episodi che rinverdiscono le gesta dei peggiori nazisti e fascisti di quell’epoca che si chiuse nel settembre del 1945 con la resa del Giappone.
Non basta la memoria per spiegare quanto è accaduto, fino a che punto l’essere umano ha saputo spingersi nell’autodistruzione di sé stesso. Non bastano i racconti dei deportati nei campi di sterminio e di concentramento, così come non bastano le poche letture e le poche visioni che si fanno a scuola.
Le generazioni che avevano avuto nelle loro famiglie, anche con parentele lontane, un morto in guerra, un caduto ucciso ora in Russia, ora in un lager; le tante altre famiglie con giovani figli diciottenni morti per mano delle brigate nere di Mussolini o per quelle dei nazisti italiani militanti nelle SS, si stanno lentamente esaurendo col passare del tempo e la memoria affievolisce.
Si tramanda di padre in figlio, da deportato a scolaro, da giovane insegnante a giovane alunno, ma c’è bisogno di affiancarle una terapia di acquisizione dei princìpi universali di libertà, di rispetto delle differenze, di solidarietà sociale, civile e morale.
Ciò che manca oggi, e che rende ancora più pericoloso l’effetto della crisi economica che non è affatto trascorsa e che imperversa nei diversi blocchi economici del pianeta, è la capacità di sentire propri determinati valori che non possono essere messi in discussione a seconda delle evenienze: non possiamo essere solidali con i migranti quando non sbarcano sulle coste italiane e diventare ostili e xenofobi se si avvicinano a “casa nostra”.
I diritti sociali e civili non sono variabili dipendenti, ma sono pietre angolari di un vivere democratico, fondato sul rispetto delle diversità che sono quella pluralità di idee su cui nasce e cresce un confronto che fonda una garanzia sicura rispetto a torsioni autoritarie che sono sempre in agguato.
L’Italia di oggi è in preda a molte di queste pulsioni antidemocratiche e si trova, come molti altri stati europei, nelle condizioni in cui, fatte le dovute eccezioni storiche, si trovava la Germania repubblicana di Weimar.
Le ragioni economiche, sociali e politiche della nascita del Nazismo dovrebbero essere patrimonio di conoscenza di tutte e tutti: dovrebbero esserlo perché solo in questo modo sarebbe possibile comprendere che, dietro l’esasperazione dei popoli abilmente manovrata dal demagogo di turno, si alimentano le peggiori dittature, i peggiori regimi che negano qualunque libertà, qualunque diritto singolo e collettivo.
Oggi ci sembra impossibile che si possano ripetere gli orrori dello sterminio di massa di categorie di persone distinguibili per religione, sesso, cultura, appartenenza politica. Eppure nel mondo questi stermini si susseguono ad un ritmo impressionante: non hanno la pianificazione organizzata da Himmler e Heichmann, non si inseriscono nel quadro della ricerca dello “spazio vitale” geopolitico di uno Stato piuttosto che un altro, ma si esprimono attraverso la ricerca del dominio economico di vaste aree del pianeta e si mascherano da guerre religiose, da conflitti interetnici.
Auschwitz, divenuto l’emblema orrorifico di quella catastrofe ispirata da una megalomania furibonda, da una ossessione demolitrice di popoli interi, è esistita e non può certamente tornare esattamente nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e nella quale ce l’hanno raccontata e descritta con parole, filmati e testimonianze dirette.
Ma può tornare quella vuota banalità di cui si nutriva il Nazismo e che proprio al processo ad Adolf Heichmann, piuttosto che a quello di Norimberga, venne fuori con una disarmante evidenza che costò parecchie critiche ad una Hanna Harendt che ne denunciò la patetica, terribile esistenza.
Il Nazionalsocialismo, Hitler, la sua corte di spietati adepti, da Goebbels a Göring, da Hess a Kaltenbrunner per arrivare a uomini di fede nazista ma anche di grande cultura come Albert Speer, aveva le sue basi proprio nella più vuota delle banalità: un niente riempito di quello che di volta in volta capitava.
Invenzioni di complotti internazionali, accuse di inferiorità razziale, creazione di stereotipi sulla base della semplice opposizione politica o religiosa.
Non è la descrizione solo di quel che accadde nel lontano 1933 in Germania e nei successivi dodici anni di vita del regime, o meglio non lo è solamente, perché di complotti internazionali, di razze e di superiorità degli autoctoni rispetto ai migranti, di repulsione verso “negri”, “zingari” e “barboni” se ne parla anche oggi. Eccome se ne parla. Se ne discute dai bar alle scuole, da Facebook a Twitter, dalla radio alla tv. Con toni differenti da luogo a luogo, ma non è un inciampo casuale se a volte si scorgono commenti come: “Riapriamo i forni e buttiamoli tutti dentro”, commentando la vicenda di un uomo ubriaco e drogato di cocaina che ha ucciso un innocente pedone che aspettava l’autobus a Genova: non importa che si tratti di uno “straniero” e non di migliaia, si generalizza immediatamente, si “fascistizza” il tutto e si invoca lo sterminio.
Sento dire che “sono solo parole” e che “la rabbia fa dire ciò che non si pensa”. Banalità. Proprio come quelle di cui si faceva grande il Nazismo. E sull’onda di questi giustificazionismi banali, si tollera che rimangano sulle pagine di Facebook i peggiori insulti razzisti, le peggiori aggressioni verbali, vere e proprie minacce di morte, di pestaggi, di aggressioni.
Auschwitz è sempre dietro l’angolo del nostro vuoto mentale, della nostra incultura, del nostro disinteresse per la politica, per la società. L’individualismo esasperato, l’innalzamento di barriere protettive e di steccati è un passo verso una nuova Auschwitz.
Il rifiuto di andare a fondo dei problemi che ci circondano è già una nuova Sobibor. E se non sai cos’è Sobibor, se ti viene voglia di scoprirlo e di conoscerne la storia, Auschwitz si allontana.
La memoria si conserva così: con l’ascolto dalla voce dei protagonisti ma, soprattutto, con la consapevolezza che tutto è sempre, nuovamente ripetibile, possibile. Perché l’ha fatto l’uomo e lo può quindi rifare.
MARCO SFERINI
27 gennaio 2016
foto tratta da Pixabay