Mi sono fatto una domanda dopo aver letto, ascoltato e discusso con alcuni amici dei gravissimi fatti che stanno accadendo in queste ore in Palestina, a Gaza e nel territorio israeliano.
Mi sono chiesto: ma Hamas sa che un attacco così massiccio, di migliaia e migliaia di missili diretti verso il centro e il sud dello Stato ebraico significa, oggettivamente, una reazione non uguale ma molto più esasperata, grande, titanica da parte di un esercito tra i più equipaggiati, potenti e reattivi al mondo per potenza di fuoco?
I dirigenti politici e i comandanti delle brigate di Hamas possono essere così stupidi da non tenere conto di qualcosa che tutti sanno o che, per lo meno, è alla portata conoscitiva di chiunque?
Basta studiare un po’, approfondire la secolare questione sionistico-palestinese per rendersi conto che la sproporzione c’è. Ed è veramente di rilievo. Può Hamas avere meno polso dei rapporti di forza rispetto a noi che siamo così lontani dalla Palestina, dai Territori occupati, dal tragico teatro di quell’apartheid che sono divenuti Cisgiordania e Gaza?
Riesce difficile credere che Hamas possa giocare una partita soltanto sull’onda di una risposta emozionale, quant’anche politica e militare, per le tante violazioni dei luoghi sacri dell’Islam, ad iniziare dalla moschea di Al-Aqsa (a cui è intitolata l’operazione di guerra iniziata nella mattinata del 6 ottobre). E riesce altresì difficile poter anche solo lontanamente immaginare che Hamas si sia mosso senza una copertura internazionale, senza relazionarsi con i suoi storici alleati. Ad iniziare dall’Iran.
La congiuntura internazionale, il “riallineamento” dei paesi altro dal blocco occidentale e filoamericano (di cui Israele ha altrettanto storicamente parte) ha indubbiamente favorito una reazione delle brigate estremiste dell’indipendentismo palestinese.
Nulla da eccepire sul fatto che una certa autonomia decisionale Hamas la abbia: non fosse altro perché governa la Striscia di Gaza dal 2007 e, sostanzialmente, pur facendo parte dello Stato di Palestina, è una entità separata dal governo dell’ANP di Abū Māzen.
Ma quello che non torna, almeno stando alle informazioni che si hanno ad oggi, è l’entità del rischio: con la destra più conservatrice e aggressiva alla guida della Knesset e del governo di Tel Aviv, chiunque di noi profani di politica mediorientale, interpreti delle cronache e degli studi che ci arrivano grazie a chi davvero si impegna in queste disamine, avrebbe potuto sconsigliare ad Hamas di sferrare un’attacco così su vasta scala contro lo Stato ebraico. Di primo acchito sarebbe saltata in mente proprio al reazione violentissima di Israele.
Che, infatti, non si è fatta attendere. Benjamin Netanyahu ha dichiarato lo stato di guerra e ha mandato l’Heyl Ha’Avir a bombardare Gaza. Il risultato sono oltre duecento morti tra gli israeliani come conseguenza degli attacchi di Hamas e altrettanti morti da parte palestinese nella controffensiva aerea. Se le domande e i dubbi sono tanti, quello che si delinea come abbastanza certa è l’apertura di una nuova fase nel conflitto tra Tel Aviv e il movimento indipendentista palestinese di chiara matrice islamica.
Una nuova guerra è cominciata.
Dopo quella in Ucraina, che comunque non origina dal nulla, non si materializza all’improvviso negli ultimi giorni del febbraio del 2022, ma proviene da un logoramento pluridecennale degli accordi internazionali sulla neutralità di Kiev, sulla funzione “cuscinetto” tra NATO e blocco russo, ora una nuova guerra si riaffaccia nello scenario globale, dando seguito ad una incertezza maggiore nelle relazioni tra i diversi blocchi che costituiscono la fase neo-multipolare che ha soppiantato le certezze unipolari della Repubblica a stelle e strisce.
L’operazione “Tempesta Al-Aqsa” è senz’altro un tentativo di Hamas di prendersi la scena internazionale in merito alla questione israelo-palestinese e di soppiantare un’Autorità Nazionale che viene sempre più vista come corporativa, compatibilista, debole, arrendevole, priva di nerbo per la causa dell’indipendenza. Un primo obiettivo, anche qui senza dubbio, visto che la reazione di Netanyahu lo ha confermato, è stata la sorpresa del governo di Tel Aviv innanzi ad un attacco che viene definito da più parti come del tutto inatteso.
Hamas ha sorpreso Israele e, novità importante, mai vista fino ad ora, reparti delle brigate Ezzedin ai-Qassam hanno oltrepassato i confini terrestri e hanno invaso i villaggi e le piccole città alla frontiera con la Striscia di Gaza.
Un attacco da terra non lo si ricordava dall’epoca delle guerre contro l’esercito di Moshe Dayan, da quella dei Sei giorni a quella del Kippur. E proprio quest’ultima assurge ad un simbolismo di non poco conto: i combattenti islamico-palestinesi attaccano Israele nel giorno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario di quel conflitto.
Ed esattamente come quello attuale, anche allora lo Stato ebraico venne preso di sorpresa da Egitto e Siria, nonché dal grande supporto internazionale che ne derivò. Da un lato Tel Aviv e gli Stati Uniti, dall’altro gli stati arabi insieme al mondo del socialismo reale, nonché ai suoi alleati cubani, tedeschi orientali, coreani del nord e a una buona parte di Stati africani inseriti o meno nella “terza via” di allora.
Lungi da fare paragoni azzardati, una certa somiglianza con gli schieramenti allora in campo permane in un sottofondo di un mondo odierno in cui, lo si voglia o no, la prepotenza americana e nord-atlantica induce gli altri paesi del pianeta a federarsi sulla base di interessi comuni, per non essere sopravanzati e ridotti a colonie dell’unico impero per Washington possibile nella nuova era del liberismo globale.
Dunque, Hamas ha fatto o no i suoi calcoli? Se stiamo ai risultati ottenuti militarmente in questo primo giorno di guerra (non è possibile chiamarla altrimenti), si potrebbe azzardare una risposta affermativa. Ma sappiamo bene che, col passare dei giorni, a meno che il conflitto non si allarghi e non coinvolga, ad esempio, Hezoballah dal sud del Libano verso il nord di Israele, chiudendo così in una manovra a tenaglia le forze dell’IDF (“Israel Defense Forces“), la reazione del governo di Netanyahu sarà spietata e truculenta.
Non verrà risparmiato niente e nessuno per vendicare gli attuali duecento morti fatti da Hamas. E’ questo il prezzo dell’indipendenza palestinese che le brigate guidate da Mohammed Deif vogliono far pagare a quello che dicono essere il loro popolo?
Noi probabilmente non abbiamo il diritto di giudicare da lontano le sofferenze di un intera comunità, di milioni di persone che da decenni e decenni soffrono nella prigione a cielo aperto di Gaza, di quei detenuti che stanno nelle carceri di Israele e che non vengono certo trattati secondo le norme del diritto e di quella democrazia che Israele vanta per sé stesso (dimenticando di essere uno stato ai limiti della teocrazia).
Non abbiamo sicuramente il diritto di dire ai palestinesi come meglio ritengono di difendersi dall’occupazione israeliana che ha eroso la compatezza del poco che rimaneva di una Cisgiordania rinchiusa tra alte mura di cemento, separato terre da terre, case da case, corsi d’acqua e coltivazioni essenziali per la vita del popolo a cui veniva così fatto rimarcare, giorno dopo giorno, che quella non era più la loro casa, ma che era diventata la dimora del sionismo divenuto Stato, oltre il mandato britannico, oltre la divisione della Palestina approvata dalle Nazioni Unite.
Non abbiamo certamente il diritto di giudicare un altro diritto: quello di chi passa ai varchi di controllo ogni giorno e viene magari arrestato senza aver fatto nulla. Solo per il fatto di essere un palestinese o magari scambiato per tale da arabo-israeliano. In una terra dove si incontrano ancora ora oltre duemila anni di storia, di politica, di monoteismi religiosi, sembra impossibile che due popoli, due Stati, due religioni (tre con quella cristiana) possano convivere pacificamente.
E sarà sempre così fino a che la comunità internazionale deciderà che gli interessi economici, finanziari e militari oltrepassano le ragioni e diritti umani. Sarà sempre così fino a che si continuerà a chiamare distortamente l’aggressore aggredito e chi si difende un terrorista a prescindere, perché così vuole la Corte dell’Aia, perché così hanno deciso i nostri soloni della Legge occidentale, del campo americano, i campioni della democrazia per antonomasia.
In questi anni i palestinesi hanno visto accrescersi gli accanimenti del potere israeliano nei confronti delle loro esistenze quotidiane. La prospettiva di una riforma della giustizia dello Stato ebraico, pure contrastata da una larga fascia della popolazione con a cuore un regime veramente parlamentare, è solo l’ultimo tassello di una ridefinizione dei rapporti tra le comunità cisgiordane e la Striscia di Gaza.
Il laicismo e la democrazia di Israele sono stati progressivamente sorpassati dalla teorizzazione di un regime rabbinico, un regime che la destra di Netanyahu rappresenta politicamente e dal quale è ampiamente sostenuta. Si tratta della ricomposizione di un fronte di un estremismo religioso, nazionalista (quindi sionista) e altamente fanatizzato e fanatizzante che, proprio in questi ultimi anni, ha operato violentemente contro il popolo palestinese.
Le colonizzazioni si sono estese, altra terra è stata sottratta al controllo dell’ANP, mentre i messaggi in direzione di Hamas venivano dati dal governo con trattamenti sempre più crudeli nelle carceri e nel controllo del territorio.
La spinta teocratica è stata alimentata da personaggi come Yitzchak Ginsburgh, settantottenne direttore di una scuola talmudica, grande divulgatore dell’estremismo religioso dalla colonia di Yizhar. Il governo di Netanyahu ha sostenuto una politica di avvicinamento ad una fisionomia sempre meno laica di Israele, pur cercando di preservare le parvenze di democrazia che ci si aspetta ormai di leggere in ogni cronaca di giornale o di programma televisivo.
Ecco che la domanda iniziale sulla considerazione dei rapporti di forza politici, soprattutto militari, e sulla risposta di Israele ad un attacco su vasta scala da parte di Hamas contro le terre di confine, ma pure contro obiettivi che vanno al di là di quello che eravamo abituati a vedere come massima gittata dei missili puntualmente intercettati dalla contraerea israeliana, si fa meno banale di quello che potesse sembrare. Meno scontata. Più articolata, infatti, è la risposta che si può dare.
Quando la sofferenza è così tanta, quando l’occupazione israeliana della Palestina è una sorta di dogma per l’Occidente, per gli Stati Uniti d’America, per un’Europa che, nessuno governo escluso, inizia a proiettare sui suoi monumenti e sui palazzi istituzionali la bandiera di Tel Aviv, al pari di quella ucraina un anno e mezzo fa, e ad esprimere solidarietà al governo di Netanyahu, allora è anche probabile che la considerazione della risposta di uno degli eserciti più potenti al mondo per potenza di fuoco e per capacità addestrative venga messa in secondo piano.
Non sottovalutata, ma consegnata alla complicazione degli eventi che, come si sa, quando si tratta di guerra assumono fattezze tra le più diverse, impensabili. Le alleanze di oggi diventano le rivalità di domani e viceversa. Israele e i suoi servizi segreti sono stati colti di sorpresa. Adesso hanno il tempo per riprendersi e per sferrare quella omicidiaria reazione che tutti ci aspettiamo.
Conoscendo la virulenza dell’occupazione, la crudeltà della repressione, l’incoscienza del fanatismo religioso di entrambe le parti (fatta eccezione per l’ANP), c’è da ipotizzare lo scenario peggiore. Quello che mi viene in mente ora è una Striscia di Gaza quasi rasa al suolo. Senza più terra, senza più un briciolo di speranza, senza più popolo. Soprattutto.
Noi non possiamo giudicare le azioni del popolo palestinese che lotta per la sua vita, per la sua terra, per la sua libertà. Ma possiamo dire senza remora alcuna che per sessanta e più anni c’è stato un aggressore e c’è stato un aggredito. Riesce difficile oggi distinguere chi sia l’uno e chi sia l’altro. A meno di non considerare l’esistenza del popolo “eletto” prioritaria rispetto a quella di altri.
La lezione della Storia, come ricordava Primo Levi, non è stata affatto imparata e la gente muore al di qua e al di là della Striscia di Gaza…
MARCO SFERINI
7 ottobre 2023
foto:screenshot tv