Della questione abruzzese si è già ampiamente detto e scritto. Sembrava dovesse mettere in sordina per un po’ di tempo i contrasti interni alla maggioranza di governo, relativi soprattutto alle differenti modalità di approccio da un lato all’autonomia differenziata, dall’altro alla tentazione premieristico-presidenzialista, con in mezzo il ringalluzzimento di un centro liberale che, ripercorrendo le gesta berlusconiane, avrebbe avuto il ruolo di mediatore e di pacere permanente.
Invece, a pochi giorni dalla vittoria di Marco Marsilio, esplode in Parlamento la bomba sul terzo mandato per i presidenti di regione e, siccome le disgrazie non vengono mai sole, anche la proposta, sempre leghista, di far sì che un sindaco di un comune sopra i quindicimila abitanti possa essere eletto anche se non raggiunge la metà più uno dei voti validi, eliminando così il ballottaggio, permettendo al candidato di diventare primo cittadino se supera il 40% dei consensi.
E’ bastato questo connubio di alterazioni antidemocratiche per mandare in fibrillazione la compagine governativa: da un lato Forza Italia e Fratelli d’Italia, dall’altro la Lega. Storiche battaglie di un Carroccio non più di lotta (caso mai lo sia stato…) e solo di governo, che non vuole perdere l’ultimo bastione che gli resta, dopo le percentuali da capogiro di qualche anno fa, dopo la tragicommedia del Papeete e la parabola discendente di un salvinismo che, tuttavia, prova a rimotivarsi.
Il risultato in Abruzzo è l’oggettivissima debolezza di una forza politica che, tramutatasi da macroregionale a nazionale, ha perso col tempo non soltanto la sua primigenia, primordiale e primitiva identità di longobardismo autonomista e federalista, di proiezione celtica dal passato al futuro, di rivendicazione del primato del Nord rispetto al Sud per diritto di primazia economica, oltre che, già che ci si era, per origine padana, ma soprattutto ha smarrito la sua missione attuale.
Che cos’è oggi la Lega di Matteo Salvini se non un disperato tentativo di rappresentare ancora il ceto medio e produttivo della Lombardia, del Veneto, del Piemonte, della Liguria, del Friuli Venezia Giulia, del Trentino e dell’Emilia Romagna per conservare così una fisionomia di destra iperprotezionista, critica verso l’Europa e conservatrice all’ennesima potenza, visti gli elogi di generali che scrivono libri – invettive contro le minoranze di ogni ordine e grado e riscuotono un vasto successo interclassista in molta parte dello scontento acrimonioso del Paese?
Esiste ancora uno spazio politico per la Lega tra la destra ambivalente, nazionalista ed europeista, orbanista e filoatlantista, sociale e liberista rappresentata da Fratelli d’Italia, e quella liberal-popolare che doppia il Carroccio in Abruzzo e fa dire a Tajani di avere, come massima aspirazione (e, per carità, anche ragionevolmente giusta e comprensibile), il raggiungimento del 10% per Forza Italia alle prossime elezioni europee?
La domanda non è retorica, nonostante possa sembrarlo, vista la crisi verticale del leghismo neonazionalista e sovranista cui gli stessi membri del partito dei Salvini credono ormai più poco.
Il punto di discussione sembra essere affidato ad un paragone tra il passato e il presente dela Lega: quando era “Nord“, e riuniva i vari partiti autonomisti sorti con la fine del ciclo pentapartitico della prima repubblica, la sua distinguibilità dalle altre destre come forza politica con un preciso programma di contrasto del centralismo statale e di lotta per un federalismo divenuto, dopo Miglio, un irragionevole (ma conveniente) spirito secessionistico, era ben visibile.
L’equilibrio, più volte entrato in profonda crisi, tra Berlusconi, Bossi e Fini ha retto fino a che il primo è stato sufficientemente forte da determinare le sorti dell’intero centrodestra italiano. Non appena Forza Italia ha esaurito la sua spinta propulsiva come partito federatore del mondo retrivo e conservatore di un Paese molto diviso tra nord e sud, tra economie sempre più divaricate e lontane fra loro, la lotta per l’egemonia si è scatenata.
E siccome nel centrosinistra si stava snaturando l’idea originaria che aveva portato alla nascita del PD, con l’avvento del “renzismo” e lo spostamento sempre più a destra del centro (diciamo così…) progressista, serviva qualcuno che salvasse il centrodestra dal non essere più competitivo e alternante rispetto all’ex grande alleanza democratica prima ulivista e poi unionista. Lo scompaginamento delle carte si è verificato con l’aprirsi della stagione grillina, del populismo individualista e unicista pentastellato.
Qui la sinistra moderata, più ancora di quella di alternativa, si è giocata il ruolo di rappresentanza dei ceti popolari, perché ha finito con l’essere percepita come parte del problema che, un tempo, riguardava soltanto la destra.
Le politiche economiche fatte dai governi tanto di centrodestra quanto di centrosinistra, si sono somigliate talmente tanto da indurre anche il più sprovveduto dei cittadini in fatto di interventi di riforme sul piano strutturale, del mondo del lavoro, della sanità, della scuola, a considerare non più l’alternanza tra i due poli, ma la quasi uguaglianza.
I Cinquestelle, nell’introdursi nell’odeon politico italiano come forza di destra, nonostante la loro riluttanza a definirsi in quanto tali, hanno rappresentato un ulteriore spostamento dell’elettorato su un protestatarismo qualunquista moderno, in cui alla conseriderazione delle vere ragioni dei problemi sociali si è sostituito l’anatema indiscriminato verso tutta la politica di palazzo, contro le istituzioni, contro la stessa democrazia intesa nella sua rappresentanza parlamentare: da aprire come una scatoletta di tonno…
A destra, quindi, Salvini ha avuto buon gioco in allora nel presentarsi e nell’essere, sostanzialmente, il successore di un Berlusconi sempre più affievolito, debole, per circospezione del proprio elettorato nell’affidargli ancora un ruolo di proconsole dell’industrialismo capitalistico italiano tanto in patria quanto in Europa e nel mondo. Non ha giovato alla resurrezione di una qualche forma di salvinismo post-Papeete il tecnicismo dei governi di “unità nazionale“: grandi ammucchiate interclassiste, deliberate e forzate in uguale misura.
L’unica figura un po’ di rilievo, che ha saputo attagliare su sé stessa un doppio ruolo di esperto di economia e di politico, è stata quella di Giancarlo Giorgetti che, effettivamente, ha per qualche ragione evidente fatto parlare di sé come di un competitor all’interno della stessa Lega nei confronti di Salvini sul tema mai discusso della guida del partito.
Ed infatti, l’ormai ex capitano ricopre il ruolo di vicepresidente del Consiglio e anche di ministro delle Infrastrutture, mentre Giorgetti ha un ruolo più che politico ma inserito in un contesto prettamente molto tecnico.
La Lega, percentualmente parlando, alle soglie della campagna elettorale per le europee rischia di essere sopravanzata da una Forza Italia che esce dalla competizione regionale abruzzese con percentuali e voti assoluti di tutto riguardo, rispetto a ciò che ormai si era abituati a considerare scorrendo i sondaggi settimanali da qualche anno a questa parte. La partita per l’egemonia nella compagine di destra, pertanto, si gioca non tanto sul nome di chi la guida. Nome che c’è ed è in carica: Giorgia Meloni.
La puntata sul tavolo è tutta, o quasi, sulla rappresentatività politica degli interessi sociali e imprenditoriali, sulla rimodulazione di una connessione tra tratto popolare e di lotta del Carroccio e fisionomia istituzional-governativa. Un connubio che Fratelli d’Italia, senza dubbio, ha saputo simbiotizzare meglio dei suoi alleati, visto che il Giano Bifronte che è divenuto, non accenna a perdere forza, energia e persino tracotanza. Merito della presidente del Consiglio. Senza di lei, la sua corte dei miracolati sarebbe allo sbando.
Giorgia Meloni è il punto di saldatura tra il passato missino che non passa, visto che l’antifascismo è parola impronunciabile per lei e per i suoi fedelissimi, e un pragmatismo governativo che, nello smentire praticamente tutto il programma elettorale del settembre 2022, tuttavia non getta nello scoramento il suo elettorato che si mantiene saldo attorno al simbolo della fiamma tricolore.
Così, mentre pure il partito di Tajani si rinvigorisce e guarda al centro dello schieramento, la terra di mezzo della politica italiana dove un tempo si decidevano le vere sorti dei governi della Repubblica, il leghismo vagheggia, balbetta, cincischia sé stesso. L’impressione, come già evidenziato, è che via sia uno spazio di agibilità politica sempre più ridotto per l’energumenica e tonante sequela di anatemi di Salvini contro le minoranze, contro i migranti, contro le invasioni, contro le droghe, per il trittico Dio – Patria – Famiglia.
Così, e questa è la cartina di tornasola, la prova del nove, il cerchio che quadra nella verifica delle ipotesi e delle analisi fin qui tentate, ecco spuntare il salvatore dei consensi elettorali: un generale. In predicato di essere candidato per le europee, magari in testa di lista. Uno che scrive di sé medesimo, che vende libri su Amazon più di grandi e veri scrittori.
Uno che alla domanda su cosa pensi di Benito Mussolini, risponde: «Uno statista. Ma non do giudizi». Considerazione apparentemente neutra, storiografica, con invece un doppiofondo di malcelata ammirazione per il crapùn.
Solitamente la Lega si affidava sempre agli uomini e alle donne di punta, cresciuti e cresciute dentro il movimento-partito, provenienti dalla gavetta e divenuti dirigenti regionali prima e nazionali poi. Forse, tra gli “esterni” e gli “indipendenti” si poteva annoverare, in tempi ormai passati (visto che è transitato a Fratelli d’Italia), Giulio Tremonti. Prima ancora Gianfranco Miglio. Oggi tocca ad un generale che fa tante ospitate in televisione quante nessun militare ne ha mai fatte.
Tendenzialmente, l’ipotesi di questa candidatura pare proprio essere l’ultima spiaggia per recuperare il voto della destra più estrema, quella che urla più di una Meloni nei comizi abruzzesi, che si mette oltre all’elmetto anche l’orbace e tiene rapporti in Europa con i peggiori reazionari del momento. E’ la considerazione più prossima che si può ricavare da una osservazione empirica di un politicismo comunque deprimente.
Ormai siamo ben oltre le facezie del berlusconismo legate agli interessi di una parte per precisa della società italiana: la classe dominante, il padronato o mondo delle imprese che dir si voglia. La destra precipita su sé stessa se prova a dare vita ad un gruppo dirigente interpartitico che, per lo meno, prenda avvio dalle esperienze dei governo dei singoli ministri. Presi uno ad uno sono imbarazzanti. Messi insieme sono una tragedia per l’Italia dell’economia, del lavoro, della cultura, della scuola, dei diritti fondamentali.
E’ difficile dire se la Lega troverà il modo di uscire da questa palese frustrazione. Dovrebbero rovesciarsi i rapporti di forza anzitutto numerici. Ma, se si ripercorre un po’ la storia della politica italiana degli ultimi decenni, ci si accorgerà che le meteore arrivano, percorrono il loro tratto di strada e poi passano. A Salvini, al momento, è toccato passare senza mai avere il privilegio, come lo hanno avuto Renzi, Conte, Draghi e Meloni, di diventare capo del governo italiano.
Il suo è un ruolo da secondo che fa fatica ad essere addirittura un comprimario. Un ruolo da spalla del grande attore o della grande attrice del momento. Una spalla ingombrante, che già qualcuno si era scrollatto d’addosso. E non è detto che non accada ancora.
MARCO SFERINI
16 marzo 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria