La frontiera politica dello smartphone

L’infrastruttura grazie alla quale miliardi di persone comunicano realizza i due sogni del potere: sapere chi parla con chi e influenzare le conversazioni

L’arresto in Francia del fondatore di Telegram sta provocando forti reazioni, anche a livello politico. Come però già in casi precedenti, basti pensare alle controversie relative a Facebook o a TikTok, le polemiche contingenti rischiano di oscurare le questioni strutturali di fondo. Si tende a dimenticare, infatti, che le tecnologie della comunicazione sono sempre state cruciali strumenti di potere e quindi sono sempre state – e oggi, più che mai, sono – tecnologie intrinsecamente politiche. Chi comunica con chi, quando, con quale frequenza, di che cosa e in quali circostanze sono informazioni che il potere – nelle sue varie forme e articolazioni, sia pubbliche, sia private – ha sempre desiderato possedere.

Inoltre, il potere ha sempre desiderato controllare il più possibile il flusso di informazioni che in qualche modo potevano influenzarne l’azione o intaccarne la legittimità. Due pulsioni, quella di tutto conoscere e quella di tutto controllare, rese entrambe ancora più intense in periodi di guerra o, comunque, di tensioni politico-sociali.

A queste pulsioni del potere si è cercato di porre argine lottando per stabilire diritti che giustamente consideriamo come le fondamenta del vivere civile: innanzitutto, la libertà di espressione, e poi la libertà di stampa, la libertà di associazione, la segretezza della corrispondenza, la protezione dei dati personali, le norme che regolamentano in maniera rigorosa la sorveglianza degli individui, le norme che impongono trasparenza e responsabilità ai poteri (in primis pubblici, ma non solo).

Chi invoca la metafora della casa di vetro, ovvero, della perfetta trasparenza (delle persone, non certo del potere) perché «tanto i cittadini per bene non hanno nulla da nascondere», adotta – come amava ricordare Stefano Rodotà – un’ideologia nazista, ovvero, totalitaria. Non solo la società democratica, infatti, ma la stessa dignità umana, ha assoluto bisogno di riservatezza, di spazi protetti dall’intrusione da parte di poteri sia pubblici, sia privati. C’è in gioco non solo il libero sviluppo della personalità degli individui, ma anche la necessità di preservare spazi dove le persone possano confrontarsi tra loro, in libertà, per discutere di politica, per organizzarsi per difendere i propri diritti, ecc.

La storia delle tecnologie della comunicazione la possiamo, quindi, leggere rintracciandovi da una parte gli sforzi del potere di tutto conoscere e di tutto controllare, e dall’altra degli sforzi delle persone (e di altri poteri) di resistere istituendo argini e dotandosi di strumenti di comunicazione indipendenti.

Ogni nuova invenzione cambia lo scenario socio-politico: lo ha fatto la stampa a caratteri mobili, e poi lo hanno fatto, in un crescendo di innovazioni, le poste moderne, il telegrafo, il telefono, i quotidiani ad alta tiratura, il cinema, la radio, la televisione, per arrivare, negli ultimi trent’anni del secolo scorso, al PC, al telefono mobile e a Internet.

Sono passaggi ben noti, molto studiati e ancora decisamente rilevanti, ma molto meno compresa è la discontinuità che comincia a delinearsi all’inizio del XXI secolo.

È all’inizio del secolo, infatti, che prendono forma sia uno specifico dispositivo, lo smartphone, sia una specifica tipologia di siti web, i cosiddetti «social media». L’accoppiata di queste due innovazioni rappresenta una discontinuità cruciale nella storia della lotta tra, da una parte, le pulsioni del potere di conoscere e controllare, e, dall’altra parte, chi vuole porre argini e controbilanciare.

Nonostante la retorica sulla «democraticità» di Internet, del PC e degli stessi «social media», infatti, la diffusione planetaria dello smartphone e dei «social media» ha rafforzato in maniera assolutamente stupefacente la capacità del potere (poteri pubblici ma, ancor più, privati) di conoscere e controllare, a detrimento degli argini e dei bilanciamenti.

Lo smartphone, infatti, è una efficientissima macchina di sorveglianza, che registra non solo la posizione e i movimenti dell’utente (nonché informazioni sull’ambiente in cui si trova), ma anche ogni sua interazione col dispositivo stesso, interazioni che ormai riguardano uno spettro amplissimo di attività, dai trasporti alla finanza, dall’istruzione al lavoro, passando informazione, salute, intrattenimento e vita personale.

Un ristretto numero di «social media», dal canto loro, ormai rappresentano l’infrastruttura grazie alla quale miliardi di persone comunicano tra loro, si informano, si associano, si organizzano. Infrastruttura che, oltre realizzare alla perfezione, su una scala e con una precisione senza precedenti, l’antico desiderio del potere di sapere chi parla con chi, quando, con che frequenza, per parlare di che cosa, realizza anche l’altro sogno del potere, ovvero, regolare i flussi di informazione, ovvero, non solo di che cosa si parla e di che cosa non si parla, e non solo chi è autorizzato a parlare o meno, ma anche di influenzare le persone nella direzione voluta inviando loro messaggi calibrati secondo le caratteristiche di ciascuno.

È da questa prospettiva che dobbiamo considerare il duopolio Apple-Google dei sistemi operativi per smartphone e i casi di Musk, Zuckerberg, TikTok e, oggi, di Pavel Durov. Evitando sterili tifoserie pro o contro, chiediamoci piuttosto: chi controlla due aspetti cruciali delle nostre società e delle nostre democrazie, ovvero, la sorveglianza – capillare e continua – delle persone e i flussi di informazione? Finora in Europa abbiamo scelto la strada di provare a regolare, in vari modi, i grandi attori privati (peraltro pressoché tutti non europei).

Constatata la clamorosa asimmetria che si è comunque creata tra il potere e le persone (e varie altre articolazioni sociali), è giunta l’ora di rivendicare con determinazione la realizzazione di smartphone e di spazi pubblici digitali molto più trasparenti e molto più rispettosi dei diritti e delle esigenze degli utenti. Se non capiamo che si tratta di una questione politica della massima importanza e urgenza, a poco serviranno i nostri sforzi in tutte le altre direzioni.

JUAN CARLOS DE MARTIN

da il manifesto.it

Foto di Lisa Fotios

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